Nel 1976 ci ha pensato Stefano Benni a rendere mitico il bar italiano, scrivendo un monumento sacro ancora attualissimo come ‘Bar Sport‘. Nel 2017, seppur con differenze di stile e contenuti, un altro Stefano (Gianuario, giornalista milanese), riprende in mano il filone pubblicando ‘Vanilla Scent‘ con Robin Edizioni.
Romanzo d’esordio con molta musica (il titolo è preso in prestito da una canzone dei Six Red Carpets), sesso, alcolici ma anche solitudine e riflessioni sulla vita alternati a scene esilaranti, in ‘Vanilla Scent‘ c’è la descrizione di tutta la Milano da bere: dal bar di periferia al locale chic tutto musica e cocktail fino alla trattoria regno assoluto di osti burberi.
Un panorama che Gianuario conosce bene: nato e cresciuto a Cormano, una lunga gavetta nella cronaca locale del milanese, Stefano è stato autore e cantante degli Hezel dal 2002 al 2012, direttore artistico dell’Arci Club Giallo dal 2008 al 2011 e presidente dell’associazione culturale Collettivo Noise.
Soprattutto è un grande amante del bar nella sua più classica accezione, passione che ha trasmesso al suo alter ego letterario.
Improvvisamente mi venne in mente un aneddoto. Ero al bar. E fin qui, poteva iniziare praticamente ogni racconto della mia vita, un po’ come le favole, che iniziavano tutte con C’era una volta.
Vanilla Scent, ci racconta Stefano, “è una storia errabonda, dove il paradosso è ormai l’ordinario, dove i bar sono luoghi di culto, il femminile è sviscerato in tutte le sue forme e l’unico apice possibile è la ricerca di sé”.
MW – Il tuo bar del cuore ha connotati precisi?
SG – È il bar puro, quello dove non si mangia, al massimo due olive con l’aperitivo ma di sicuro ben lontano dagli apericena così di moda. Il barista è sovrano assoluto, burbero e maleducato, serve solo vino, birra e amari, rigorosamente vietati i cocktail. E ovviamente la popolazione femminile è pressoché sconosciuta.
Quali precedenti letterari ci sono nel tuo bar?
Sicuramente Stefano Benni, di lui c’è davvero moltissimo, è uno scrittore che dopo 40 anni riesce ancora a pubblicare capolavori assoluti senza mai salire in cattedra. C’è molto Paolo Villaggio, che ha scritto libri incredibili con una scrittura dissacrante che amo. E poi il precursore di tutti, Charles Bukowski: era del ’24, l’età di mio nonno, e già scriveva così.
Due indirizzi imperdibili secondo te?
Quello del mio bar a Cormano è rigorosamente top secret, non vorrei che la notorietà ne snaturasse l’atmosfera. Ma a Milano un luogo che amo molto è il Frida, all’Isola. Anche perché ha il vantaggio di avere sempre avuto parecchia clientela femminile.
Quanto c’è di Milano nel tuo libro?
Moltissimo. Anche se nel libro non ci sono nomi e riferimenti spazio-temporali, Milano e la sua periferia emergono in modo nitido. Ed è paradossale perché ho iniziato a scrivere il romanzo proprio nel momento in cui, per lavoro, ho lasciato Milano per Torino.
C’è un luogo della città che ami particolarmente?
Il tram. Non riesco a scrivere in giro perché solitamente è un rito che lascio alla notte. Però quando sono in tram prendo appunti mentali, carpisco frammenti di conversazioni, svesto e rivesto le persone.
La tua prima volta al bar?
Per lavoro. Avevo 19 anni e facevo il barista in un locale di Sesto San Giovanni: ho avuto la fortuna di avere un mentore che era un uomo da bar, un vero uomo da bar. Lui mi ha iniziato al culto.
C’è differenza tra i bar di Milano e quelli della periferia?
Diciamo che i prezzi e la scortesia dell’oste sono più alti in città rispetto alla periferia. Ma Milano è una città che varia molto a seconda delle zone: alcune la sera si svuotano e altre tornano a vivere.