Si apre con 11 sedie di velluto rosso “apparecchiate” sul palco vuoto e Pepe, storico attore della compagnia, che accoglie come un gran cerimoniere gli ospiti-artisti italiani e croati di Vangelo, l’ultimo parto teatrale di Pippo Delbono. Uno spettacolo ricco, per certi versi bulimico e prometeico, ma allo stesso tempo semplice, sincero, diretto, al limite in qualche caso della didascalia, in grado di “arrivare”, come si dice oggi, a un pubblico vasto, di credenti e non credenti di qualunque razza e appartenenza (“non è di nessuno questo amore”), purché libero da pregiudizi.
Contro di essi e contro la paura e il profumo di morte che albergano in certi teatri come anche in certe chiese, si scaglia la bellissima voce del regista-demiurgo nascosto all’inizio in platea, amplificata e come disincarnata da un microfono che serve a tratti a sovrastare il rumore. Urla e reclama laicamente felicità, amore e quella verità che sola rende liberi, a volte con le parole attribuite a Cristo nei vangeli ufficiali, altre con quelle di un campione della fede come Sant’Agostino, altre ancora con i versi dedicati agli ultimi e ai reietti dal Pasolini della “Profezia”: “Essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/ essi sempre infimi/essi sempre sudditi…”.
Ma quello che si produce sulla scena non è come sarebbe fin troppo facile pensare a un apocrifo “Vangelo secondo Delbono”, con la sua passione per gli esclusi da ogni banchetto, i matti, i malati, i diversi, i senza patria e i diseredati; e le undici sedie non sono neanche numericamente riconducibili alla comparsa di prevedibili “apostoli” del suo verbo teatrale. Si coglie piuttosto uno lavoro corale, molto ben orchestrato, dove alle presenze fisse, carismatiche della “comunità vagante” del primo attore – Bobò, Gianluca Ballarè, Nelson Lariccia, lo stesso Pepe Robledo… -, si aggiungono personalità nuove e diverse, scenicamente efficaci, frutto dell’incontro con gli attori del Teatro Nazionale Croato di Zagabria, dove l’opera, in versione lirica, comprensiva di coro e orchestra, ha debuttato lo scorso anno.
Ovviamente è una scelta reciprocamente impegnativa quella di salire o meno a bordo di una compagnia forte e caratterizzata come questa, in cui la vision del “nome in ditta” è fondamentale, ma lo sono altrettanto lo spessore e il vissuto dei singoli interpreti, uomini e donne. Perché l’unico copione che davvero conta, oltre alla narrazione fuori e dentro la scena di un regista che non si limita mai ad assistere, è quello tatuato sulla loro carne.
Nata autobiograficamente per esaudire un desiderio in punto di morte della propria madre, cattolicissima, che gli chiedeva “perché, Pippo, non fai uno spettacolo sul Vangelo?”, la ventunesima creazione teatrale di Delbono ha un suo gemello cinematografico, ambientato in un centro profughi, che meriterebbe un’ampia distribuzione nelle sale e che ha suscitato molto interesse alle “Giornate degli autori” dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Anche nello spettacolo teatrale le immagini, talora molto crude (come quelle che evocano la strage dei migranti africani a Castel Volturno, in Campania, nel 2008), proiettate su una sorta di grande muro-fondale, hanno un ruolo espressivo e spesso fanno da controcanto alle azioni fisiche e al racconto dei quattordici attori e del regista. La sacralità della vita umana emerge qui a dispetto di ogni confessione o inquisizione religiosa (“non credo in questo dio sempre maschio, meglio il diavolo, che è bisex…”).
E la musica – dai lieder schubertiani al “Don Giovanni” di Mozart, dal coro di “Jesus Christ Superstar” alle citazioni di De Andrè e Alan Sorrenti, fino alle straordinarie sonorità digitali create ad hoc da Enzo Avitabile – è di per sé un grande collante emotivo. Al termine di un’ora e quaranta minuti filati che vorresti non finissero mai, il cerchio filosoficamente si chiude: “se Cristo ce l’avessero raccontato così, forse sarei diventato un buon cristiano. Come voleva mia mamma”.
Al Piccolo Teatro Strehler fino al 13 novembre