In una piccola cittadina del Missouri, Ebbing, c’è una donna che da troppo tempo attende giustizia per la morte della figlia, uccisa in circostanze atroci. A Ebbing tutti conoscono tutti, pochi segreti riescono a rimanere tali dinanzi alla pervasività del chiacchiericcio, e per quanto la maggior parte della popolazione sia dispiaciuta per il lutto di Mildred, in molti sono convinti che lo sceriffo Bill Willoughby abbia fatto quanto in suo potere per consegnare alla giustizia i responsabili del delitto.
Naturalmente Mildred, nota a tutti per il carattere impetuoso e la lingua scurrile, non è di questo parere, e decide di smuovere le acque con una mossa a sorpresa: l’affitto per un anno di tre enormi cartelloni pubblicitari, dal fondo rosso fiammante, nei quali accusa esplicitamente la polizia di non essersi impegnata a sufficienza, caldeggiando così la ripresa delle indagini. In questo modo Mildred non solo si metterà contro quasi tutta la cittadina, a parte alcuni amici fedeli, e scatenerà le rappresaglie del violento aiutante dello sceriffo, Jason Dixon, ma darà il via a un’escalation di violenza, una spirale di odio dalla quale sarà difficile uscire.
Dopo il sorprendente esordio In Bruges e l’interlocutorio 7 psicopatici, l’11 gennaio ritorna al cinema Martin McDonagh, prodigio della drammaturgia irlandese prestato alla settima arte.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri, infatti, esibisce quelle caratteristiche che avevano reso grande il thriller-commedia esistenziale con Colin Farrell e Brendan Gleeson: un’ironia nerissima che pervade ogni cosa e non si ferma neanche davanti alle situazioni più drammatiche (e delle quali si ride di gusto), la propensione alla scrittura di dialoghi curatissimi e di insulti creativi e sboccati, nonché una particolare attenzione per il tratteggio di psicologie tutt’altro che banali, con il risultato di avere sullo schermo personaggi tridimensionali, contraddittori, ambigui e fragili in tutta la loro umanità.
“Brave persone costrette a compiere gesti orribili”: si potrebbe sintetizzare così la premessa di questo film, in cui si fanno notare le performance di Frances McDormand, Woody Harrelson e Sam Rockwell, che sfrutta lo stesso afflato grottesco delle opere dei fratelli Coen, pur senza arrivare alla medesime apocalissi, dove invece che essere rivelato il senso del mondo viene oscurato.
McDonagh, invece, pare essere più interessato a mettere in scena una storia in cui ogni snodo della trama e ogni personaggio presto o tardi rivelano un lato inaspettato, altrettanto significativo e umano, che rimette in gioco quanto pensavamo di sapere su di loro (pur non stravolgendo necessariamente la nostra considerazioni degli stessi).
I cartelloni di Mildred da iniziale veicolo di giustizia diventano strumenti di odio, e la sua stessa missione deborda in un’ossessione cieca; i rapporti con i figli si scoprono essere meno idilliaci di quanto si credesse all’inizio; la rabbia violenta, ottusa e carica di pregiudizi dell’aiuto sceriffo (che subisce un duro colpo che provoca un profluvio di lacrime virili, trattate con rispetto dal regista), si trasforma in un’occasione di riscatto grazie ad alcune semplici parole postume.
Il grande merito di Tre manifesti a Ebbing, Missouri sta infatti nel non fermarsi alla mera illustrazione di una frase banale, seppur verissima, come “l’odio genera soltanto altro odio”, pronunciata tra l’altro dal meno perspicace e più innocente dei personaggi. McDonagh, aiutato da un cast in stato di grazia, un’atmosfera elegiaca frutto di un bel lavoro di fotografia a opera di Ben Davis, e un sagace lavoro di scrittura, mostra quanto in ogni essere umani si annidino felici complicazioni e incredibili contraddizioni, e come anche nelle situazioni di dolore più estreme si possa scorgere uno spiraglio di luce.
A frenare in alcuni punti il film solo un leggerissimo “complesso di inferiorità” da parte del regista, il quale sembra voler a volte calcare eccessivamente la mano sull’emozione (uno stucchevole dialogo tra la protagonista e un daino) e la volontà di creare alcune immagini molto forti, forse troppo caricate e in contrasto con il tono generale della pellicola (un incendio che esibisce in maniera troppo esplicita le stigmate del “film d’arte”).
Tutto sommate inezie per un film che lascia frastornati, avvinti, anche commossi e potenzialmente disposti a dare una seconda occasione al genere umano.
Il nostro voto
7,5
Una frase del film
“Mia figlia Angela è stata ammazzata sette mesi fa. La polizia è troppo impegnata a torturare persone di colore per risolvere un crimine vero.”