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Il primo giorno del nuovo anno, il 1 gennaio del 2019, viene inaugurato dall’uscita di uno dei film più attesi da tutti i cinefili, gli appassionati di film horror e in generale da tutti coloro che sono rimasti ammaliati da Chiamami col tuo nome. Il regista Luca Guadagnino ha infatti deciso di imbarcarsi nell’ambizioso e un po’ insolito progetto del remake di una delle pellicole simbolo dell’horror italiano degli anni ’70, Suspiria di Dario Argento.
Quella dei rifacimenti non è certo una pratica così inusuale al giorno d’oggi, ma aveva destato grande curiosità l’accostamento tra la raffinatezza di Guadagnino e il cinema dell’Argento ai massimi livelli d’inventiva. Un incontro – lo possiamo anticipare – che purtroppo non ha prodotto i frutti sperati.
Suspiria: la trama
Ci troviamo nella Berlino del 1977 ancora divisa e sconvolta dalle rivolte studentesche e i fatti di cronaca legati alla Banda Baader-Meinhof. In città arriva la ballerina americana Susie Bannion, interpretata da Dakota Johnson, fortemente intenzionata a entrare nella prestigiosa accademia della compagnia di ballo Markos Tanz Company.
Qui infatti lavora l’idolo assoluto di Susie, Madame Blanc (Tilda Swinton), la quale rimane subito ammirata dalle capacità quasi sovrannaturali della ragazza. Susie stringe amicizia con Sara, una ragazza che cerca di capire che fine abbia fatto l’amica Patricia (Chloë Moretz), scomparsa da qualche giorno.
In un preambolo abbiamo avuto modo di vedere la giovane chiedere l’aiuto dello psicoterapeuta, Josef Klemperer, al quale ha confidato un segreto pericoloso: l’accademia sarebbe controllata da una congrega di streghe intenzionate a evocare Mater Suspiriorum, un’antica divinità dai poteri misteriosi.
L’accademia sarà così sconvolta da una serie di omicidi ed eventi paranormali, ma il destino dei protagonisti non sarà affatto quello che ci si potrebbe attendere da queste premesse.
Suspiria: il trailer
Suspiria: la recensione
La storia portata su grande schermo da Argento, scritta insieme a Daria Nicolodi, era una favola che si trasformava in un incubo a occhi aperti. Saltati tutti i legami di causa-effetto, ridicolizzate tutte le velleità di approfondimenti psicologici, il canovaccio di Suspiria non era che la base su cui innestare trovate visive e sonore legate ad antiche paure infantili.
Nelle oltre 2 ore e venti minuti del suo remake Guadagnino esibisce una grande messe di temi – la maternità e la necessità di slegarsi da essa per arrivare alla creazione artistica, l’ossessione dell’arte, il senso di colpa rimosso del popolo tedesco, una strana forma di femminismo luciferino in rivolta, la Storia che preme alle porte esercitando una pressione insostenibile – non riuscendo però a dare loro forma compiuta, sia in modo esplicito che metaforico, se non a sprazzi.
Se nella sua opera precedente l’ambiente in cui nasceva l’amore tra Elio e Oliver ne costituiva un correlativo oggettivo, qui la grande attenzione riservata alle scenografie claustrofobiche, la cura con cui si viene spalmata patina marroncina-grigiastra della fotografia (che cita un maestro come Fassbinder), l’accurata ricostruzione del periodo storico vorrebbero essere significative ma risultano sopratutto elemento di arredo inessenziali.
A sostenere il film ci pensano due presenze carismatiche in modo differente come quelle della Johnson e della Swinton (qui in un doppio ruolo che non sveliamo per non rovinare la sorpresa) e il talento di Guadagnino che si manifesta in particolar modo nelle uniche sequenze davvero horror: una danza macabra con tanto di smembramento di un corpo, visioni notturne e un finale davvero esplosivo, in cui un’epifania luciferina trasforma un sabba in un bagno di sangue davvero impressionante.
Decisamente poco per gli appassionati in cerca di facili spaventi, così come, paradossalmente, non è smisurato lo spazio dedicato alla danza. Certo le coreografie sono godibili, e la perizia con cui sono riprese è evidente, ma permane la sensazione di una serie di elementi scollegati o legati in un modo che non risulta mai davvero necessario e significativo per lo spettatore.
Abbiamo parlato poi di Fassbinder come nume tutelare dell’opera, ma nella divisione in capitoli si può rivedere la mania tassonomica dell’ultimo Lars von Trier, così come alcuni riferimenti piuttosto evidenti sono quelli alle creazioni del videoartista Bill Viola e dell’inevitabile, in questo ambito, Pina Bausch. E poi, certo, le panoramiche con zoom improvvisi delle prime sequenze non possono non essere considerate un omaggio a Dario Argento.
A mancare però nel Suspiria di Guadagnino non è tanto il gusto dell’artista (riscontrabile anche nella colonna sonora affidata a Thom Yorke, piacevolmente spiazzante) e l’eleganza delle scene, ma l’atmosfera e un vero obiettivo riconoscibile del film. Ogni elemento infatti vive della propria superficie, ma non vi è nessun mistero soggiacente la lotta intestina che sconvolge l’accademia, o perlomeno nessun mistero in grado di esercitare fascinazione.
E così molte scene si trascinano senza verve, perché allo spettatore manca la curiosità di capire cosa stia succedendo. Lo stesso si può dire per il finale, tanto esplicito quanto irrilevante nel suo richiamare a sproposito una delle grandi tragedie del Novecento, come potrebbe accadere nel momento in cui una ballerina durante una coreografia si mettesse a declamare Shakespeare, pensando di rendere più interessante i propri passi di danza.
Voto
5
Una citazione
“Morte a ogni altra madre”
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