“La qualità della nostra società si giudica dal valore che assegna ai suoi membri più deboli e chi è più debole di un morto? Il modo in cui trattiamo i defunti è un riflesso del modo in cui la nostra società tratta i vivi”
Così Uberto Pasolini, già regista dell’acclamato “Machan” e produttore di “Full Monty – squattrinati organizzati” pone l’accento sul tema del suo ultimo straordinario film Still life (domenica 15 dicembre l’incontro con il regista a Milano), proiettato alla 70esima Mostra Nazionale del Cinema di Venezia e meritato vincitore del Premio Orizzonti per la regia.
Un affresco sociale dell’Inghilterra di oggi, dove emozioni e riflezzioni sgorgano con naturalezza da una produzione tutt’altro che pretenziosa, ma dotata di una raffinatezza, delicatezza e professionalità eccezionali.
“Still life” è la storia di Jhon May (Eddie Marsan) diligente funzionario comunale, un impiegato sui generis, il cui lavoro consiste nel rintracciare i parenti delle persone morte in solitudine, ma il suo impegno va oltre, il premuroso John, oltre a prodigarsi in ogni modo con tanta volontà, ma scarsi risultati nelle ricerche, organizza ad ogni “suo” defunto un dignitoso funerale.
Così frugando indizi su parenti e amici fra i cassetti dei suoi “clienti” il funzionario riesce a conoscere le loro vite: un rossetto, fotografie fra i cumuli di ricordi, un biglietto per il compleanno della gattina, John compone i suoi discorsi celebrativi e fa risuonare la musica più adatta per l’estremo saluto, lui l’unico partecipante, circondato da sedie vuote.
Il funzionario May è metodico, preciso e anch’egli solo. Un uomo che dedica la vita nemmeno al prossimo, ma addirittura alla sua anima. Una vera cura, come un fratello, un amico un padre, un figlio “accompagna” coscienziosamente ogni singolo defunto, attività che per i superiori rallenta la sbrigativa burocrazia e che diventa la ragione di licenziamento quando il reparto, a causa della crisi, viene ridimensionato. Così il solerte lavoratore si butta a capofitto nel suo ultimo “caso” che si chiama Billy Stoke, suo sconosciuto dirimpettaio veterano delle Falkland ridotto a vecchio alcolizzato, la cui ricerca di amici e parenti lo porterà fuori Londra, fino alla figlia dell’uomo (Joanne Frogatt) , un viaggio che per il protagonista si rivelerà liberatorio.
Pasolini accompagna per mano lo spettatore nella vita di John, attraverso i suoi occhi la commozione diventa palpabile, nulla ma proprio nulla in questo film è lasciato al caso, ogni particolare è importante. Il suo pranzo frugale, quel modo metodico di posizionare le posate come un rituale, gli oggetti sistemati o non negli appartamenti dei defunti, quella quotidianità che lascia senza parole quando una persona non c’è più, quel grigiore dei colori freddi negli ambienti che lo accolgono durante le sue incursioni nelle case, stessa lividezza cromatica di casa sua, quel filo invisibile e appena percettibile che lega profondamente il protagonista ai suoi “amici”.
Tutto sembra sospeso, immobile, il film viene girato quasi interamente con la camera fissa, niente virtuosismi, ma purezza e semplicità. Così come il tono recitativo pacato di Marsan, magistrale nel suo May, un’interpretazione elevatissima, che mira a tradurre gli stati interiori, i conflitti e l’immensa e taciuta umanità del protagonista. Una pellicola toccante sulla solitudine, sull’elaborazione del lutto, sulla famiglia e i rapporti interpersonali, trattati con delicatezza, senza mai forzare la mano, “Still life” è un film da vedere, poiché alla fine Pasolini ha vinto la sua scommessa, è riuscito a trasmettere il vero valore della vita.
Voto per noi: 10