Parlandovi della presentazione di Pinocchio diretto da Antonio Latella, in scena al Piccolo Teatro Strehler, ci eravamo lasciati con l’auspicio che questa messa in scena, ancor più dopo aver ascoltato le parole del regista, potesse maravigliarci. Ecco, possiamo affermare che quella maraviglia c’è stata.
Premettendo che non è assolutamente semplice parlare di questa rappresentazione e che non sarà possibile sviscerare tutto, anche perché resta una sensazione (positiva) di inafferrabile e ineffabile, va detto che c’è tantissima carne al fuoco, così come ci sono diversi piani di lettura. Un punto di partenza è fin da subito chiaro: Latella, Federico Bellini e Linda Dalisi hanno voluto ritornare all’origine, a ciò che Carlo Collodi aveva scritto, servendosi dell’edizione curata da Fernando Tempesti, per dar vita a una drammaturgia densa, in cui i registri cambiano saltando all’occorrenza proprio come fa Pinocchio.
Lo starete intuendo, se andrete a vedere questo spettacolo toglietevi dalla mente l’immagine del Pinocchio disneyano o anche quello restituito da Pinocchio – Il grande musical. Qui siamo di fronte a un lavoro differente, dietro questo Pinocchio ci sono un grandissimo studio di analisi testuale (reso anche con le musiche e il suono dal vivo a cura di Franco Visioli).
I tre autori, capitanati da una mente registica qual è quella di Antonio Latella, affondano la loro drammaturgia nel testo facendo venire a galla qualcosa che troppo spesso è passato in secondo piano: la questione della lingua, cruciale negli anni in cui Collodi scriveva. A suo modo l’autore volle offrire il proprio contributo all’Italia appena unita e un escamotage era stato proprio la creazione di Pinocchio «per poter meglio osservare dall’altezza della fiaba – proprio come il burattino osservava il padre andare verso il nuovo mondo – la contraddizione tra le miserie del pubblico/privato e le grandi aperture della mente» (da ‘A dispetto di signora pigrizia’ di Federico Bellini).
«Vuoi proprio venire al mondo? Cercheranno disperatamente di ucciderti, nel fuoco, nell’acqua, impiccandoti. Hai capito?», sentiamo tra le prime battute pronunciate dalla Fata (una brava Anna Coppola che dà vita anche a Maestro Ciliegia, Donnina e Tonno). Chissà se davvero Pinocchio (un Christian La Rosa abile nel rendere i vari colori di questo “burattino”) aveva compreso ciò che lo aspettava. Dopo un “passaggio di legno da catasta” da Maestro Ciliegia a Geppetto (un intenso, a tratti teneramente infantile, Massimiliano Speziani), prende vita, in scena, il nostro Pinocchio e lo fa – non per caso – sillabando le lettere e le parole arrivando a dire «papà», ma anche «M-o-r-t-e». Pinocchio ha dentro un’energia vitale incontenibile, esprime tutta la voglia di esplorare, vuole correre perché «camminare stanca».
Proprio come chi è appena nato, il nostro protagonista ha fame, espressione che tornerà in maniera ricorrente e che ha in sé un che di simbolico, racchiudendo diversi rimandi tra cui quello forse più istintivo: avere fame di vita.
Inizia da qui il viaggio di Pinocchio. «Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente», scriveva Dante nel Terzo Canto dell’Inferno, ed è lo stesso personaggio a suggerirlo, questi sono tra i versi danteschi più noti e basta l’accenno del «per me si va» per farli tornare alla mente. La messa in scena fa percorrere dei gironi non solo a chi la realizza sulle tavole del palcoscenico, ma anche agli spettatori, demolendo (costruttivamente) ciò che ci hanno fatto credere negli anni e suggerendo altri tasti, molto probabilmente i veri su cui Collodi voleva insistere: tra morte e vita si cresce.
Molto bello è il momento del teatro dei burattini, con un teatro nel teatro in cui l’exploit da capocomico di Mangiafoco (reso da Speziani) costituisce la ciliegina sulla torta. Tutta la compagnia è in parte, ma una nota di merito, oltre agli attori già citati, va a Marta Pizzigallo (che dà corpo e voce anche a Colombina/pulcino/merlo/ostessa/grosso colombo e lumaca).
Latella sa bene come usare il codice teatrale, portandolo a servizio della storia affinché vengano rovesciati gli stereotipi e avvenga il maraviglioso. A ciò contribuiscono l’uso attento dello spazio, con la segatura che cade – ora più intensa, ora fioca, stoppandosi in precisi punti – come se fosse una pioggia magica particolare che, forse, lava le ferite. Non manca, infatti, il dolore in questo Pinocchio, proprio come nella vita quotidiana, e non c’è la paura di far ascoltare anche parole dure in bocca a Geppetto (nel secondo atto), facendoci mettere da parte l’uomo anziano e fragile e avvicinandolo ad alcune proiezioni dei genitori sui figli.
Ci sarebbe ancora tanto da raccontarvi di questo Pinocchio, ma è meglio suggerirvi di andarlo a vedere. Ad alcuni potrebbe risultare impegnativa come visione, ma vale la pena immergersi in questa riscoperta per fare i conti con l’infanzia di ognuno di noi.
In scena al Piccolo Teatro Strehler fino a domenica 12 febbraio 2017
DURATA: 180′ più intervallo
ORARI: lunedì riposo; martedì, giovedì e sabato h 19,30; mercoledì e venerdì h 20,30; domenica h 16
PREZZI: platea 33€, balconata 26€