Cosa si è disposti a fare pur di lavorare? ci chiedevamo solo qualche giorno fa grazie alle riflessioni e agli interrogativi rilanciati da 7 minuti di Michele Placido. In Per mio figlio, diretto da Frédéric Mermoud, la domanda è: cos’è disposta a fare una madre per la verità quando ha perso suo figlio?
Non è mai semplice elaborare il lutto, per un figlio rispetto alla madre (Fai bei sogni docet – giusto per citare l’ultimo esempio) e viceversa. Diane (un’Emmanuelle Devos sempre intensa) si presenta così: con uno sguardo perso, che cerca di scrutare qualcosa al di là della finestra, fino a quando non sbatte la testa contro il vetro, una e più volte. Questo incipit è significativo non solo della condizione della donna, ma, forse, vuole essere anche una metafora di quanto si arrivi a sbattere la testa contro il muro prima di accettare come stanno davvero le cose.
Immaginiamo che la donna abbia subito un crollo dopo la perdita improvvisa del figlio ed è proprio questo l’elemento scatenante che la porta a fuggire dalla clinica dov’è ricoverata per rincorrere una verità non ancora scoperchiata. Va detto che il paesaggio diventa un co-protagonista sia per l’on the road e le investigazioni della madre, sia per la bellezza in sé di quei luoghi, capaci di racchiudere e alludere anche a qualcosa di misterioso (il fulcro è Évian).
Per mio figlio è liberamente tratto dal romanzo “Moka” di Tatiana de Rosnay, visto che il regista di origini svizzere, rispettando lo spirito del libro, ha volutamente cercato di trovare un equilibrio anche col cinema di genere, da mixare con l’introspezione (stando alle sue stesse affermazioni). Il punto è che, purtroppo, la commistione non è completamente ben riuscita. L’opera si regge in primis sulla prova di attrici della Devos e di Nathalie Baye (Marlène), con quest’ultima che rende da uno sguardo cosa voglia dire sentirsi “minacciata” nel bozzolo costruito.
Fino a che punto può arrivare la sete di vendetta? Quanto ciò che vediamo e interpretiamo corrisponde alla verità? Questa rincorsa di una spiegazione per quella morte così prematura, va di pari passo con la scoperta di Diane di se stessa. Mermoud torna ad impastare le mani nella verità, dopo averla toccata nell’esordio dietro la macchina da presa con Complices e in alcuni corti. In fondo, consciamente e non è un’ossessione che accomuna tutti noi. Il lungometraggio vuole sfiorare, senza invischiarsi troppo, anche la questione del prestare soccorso dopo aver commesso/fatto un incidente – e non vi aggiungiamo ulteriori elementi altrimenti, qualora non l’aveste già visto, ricolleghereste alcuni tasselli durante la visione in sala.
Nella trasposizione dalla pagina scritta della Rosnay alla sceneggiatura scritta con Antonin Martin-Hilbert, il regista svizzero ha scelto i luoghi vicini a sé (in origine il tutto era ambientato a Parigi) così da personalizzare una storia che già sentiva sua. Peccato che non sempre il ritmo della tensione sia all’altezza di ciò che ci si aspetterebbe da un thriller (questo è ciò che, in parte, si voleva raggiungere), dando vita a uno sviluppo drammaturgico che si perde nel dar spazio soprattutto alla personalità di queste donne. Le due sono fragili, ma desiderose di tenere insieme i cocci, si scoprono più vicine di quanto possa sembrare, eppure sono anche molto diverse. Guardandolo da questa prospettiva, Per mio figlio può rivelarsi un’opera interessante e apprezzabile sul piano recitativo soprattutto se si ha l’occasione di vederlo in lingua originale.
Voto 6, 5
Una frase: Lei non è banale