Rinasce dopo 16 anni (qui la nostra intervista a Moni Ovadia) ma è di fatto un nuovo allestimento, con una nuova compagnia e un senso ritrovato che riflette anche le dinamiche e i problemi del tempo presente, gravido di intolleranza e discriminazioni. Ma dove “lottare per il mondo è la cosa più nobile che un uomo possa fare…”.
È di ieri sera il debutto al Teatro Nuovo di Milano (tra gli spettatori anche Gad Lerner e la senatrice a vita Liliana Segre) de Il violinista sul tetto, unica versione italiana firmata Moni Ovadia di ‘Fiddler on the roof’ (1964), il celebre musical di Broadway liberamente tratto da Tevye il lattivendolo di Sholem Aleichem, il capolavoro della letteratura yiddish: la stessa lingua preservata, ad altissima temperatura teatrale in cui – e questa è un’esclusiva mondiale – sono state tradotte anche tutte le canzoni originali composte a suo tempo in inglese, per il libretto di Joseph Stein, da Sheldon Harnick (testi) e Jerry Boch (musiche).
Coralità e musicisti la cifra dello spettacolo
Diciamo subito che la coralità è la cifra drammaturgica e registica di questo spettacolo ricco di inventiva e di humor, che Ovadia e il suo gruppo di lavoro erano e sono probabilmente gli unici in Italia, per cultura e sensibilità, in grado di mettere in scena con successo e cognizione di causa. Con una scelta di fondo: coinvolgere nell’azione teatrale i musicisti, che dunque non sono calati nella buca dell’orchestra o nascosti dietro un velatino ma partecipano a pieno titolo all’azione teatrale, unendo l’abilità strumentale a vere e proprie prestazioni attoriali, in ruoli minori ma sempre ben caratterizzati, grazie anche alla luce riflessa dai bellissimi costumi e camuffamenti ideati da Elisa Savi (per la prima volta anche nel ruolo di regista collaboratore) e alle sapienti coreografie di Elisabeth Boecke che fan muovere tutti, non solo il “corpo di ballo”, nella scenografia essenziale (un villaggio stilizzato, con i volumi estrusi come in un quadro cubista) disegnata da Gianni Carluccio e illuminata da Amilcare Canali.
Ambientato in uno shtetl, un tipico insediamento ebraico appena tollerato dai padroni di casa nella Russia zarista dei primi del ‘900, il plot infiorato di arguzie, equivoci e paradossi gira attorno alla figura di un uomo pio, sinceramente devoto alla Torah, che però non è il rabbino, né il violinista del titolo – citazione dell’opera pittorica di Marc Chagall e metafora di una condizione di instabilità appena alleviata dall’ancoraggio al “tetto” della tradizione –, bensì l’umile lattaio della piccola e coesa comunità destinata suo malgrado all’esilio e alla diaspora, come da manuale del popolo eletto. Uno, insomma, che tira letteralmente la carretta in un’economia del baratto in cui soldi sono perlopiù un miraggio (la famosa canzone di Rotschild).
I problemi materiali della sopravvivenza quotidiana e il cruccio di tre figlie in età da marito da sistemare dignitosamente tramite combine sono il sale del rapporto con la moglie Golde (Lee Colbert, protagonista anche della prima edizione del musical), la classica “yiddish mame”, spesso in combutta con Yente, la sensale del villaggio (l’istrionica Sabrina Sproviero, che si gioca anche altri due ruoli) ed entrano con prepotenza nel fitto dialogo, una sorta di filo diretto, di microfono aperto che Tevye (Moni Ovadia) ha con il “padrone dell’universo”. L’onnipotente, certo, ma forse anche, psicanaliticamente, una dislocazione della sua coscienza, intrisa di dogmi e tuttavia piena di buonsenso e umanità, naturale predisposizione a cogliere e accettare (in seconda battuta, dopo adeguato travaglio) il punto di vista dell’altro, del diverso.
Si tratti della volontà ribelle e protofemminista delle figlie maggiori Zeytl (Chiara Seminara), Hodl (Aurora Cimino) e Have (Graziana Lo Brutto), che respingono al mittente l’idea del matrimonio combinato con una stretta di mano fra uomini d’onore, come quella imprudente con il ricco macellaio vedovo Leyzer Wolf (Giuseppe Ranoia); o di quella dei loro amati pretendenti, tra cui si presentano a turno un sarto di buoni sentimenti ma povero in canna (Motl, Giampaolo Romania), un libero pensatore geniale e sovversivo (Percik, interpretato da Mario Incudine, fra i campioni delle ultime stagioni teatrali, spesso al fianco di Ovadia) e persino un russo non ebreo (Fiedka, Alberto Malanchino), che incarna l’ultimo e più pericoloso tabù, quello della diversa fede religiosa. Sullo sfondo la minaccia incombente del pogrom: dalle scaramucce annunciate dagli “amici” russi alla vera e propria devastazione delle case e alla definitiva cacciata per ordine di San Pietroburgo di tutti gli abitanti ebrei di Ahatebka…
Repliche fino al 3 marzo al Nuovo e tournée
Alla prima Il Violinista sul tetto è stato accolto calorosamente, con particolare entusiasmo per le scene d’insieme del matrimonio rituale e dello shabbes, la festa del sabato ebraico. Moni Ovadia è un mattatore sopraffino ed eccentrico, che tiene le fila di tutto ma sa farsi da parte e giocare di sponda in una partita che si svolge su più piani, significati e livelli di lettura. Uno spettacolo complesso e impegnativo (per chi lo fa), pur nella godibilità del musical, il cui ritmo e la cui fluidità cresceranno di replica in replica fino al 3 marzo. Si auspica un prosieguo: una ripresa qui a Milano e una tournée, ipotizzata per il 2020.
In scena, oltre ai nominati, i versatili componenti della MoniOvadiaStage Orchestra: i cooordinatori Vincenzo Pasquariello (pianoforte) e Paolo Rocca (clarinetto), con Janos Asur (violino), Albert Florian Mijai (fisarmonica), Paolo De Ceglie (tromba), Luca Garlaschelli (contrabbasso) e Marian Serban (cymbalon) e i valenti ballerini Luigi Allocca, Vincenzo Castelluccio, Francesco Coccia ed Eus Santucci.
Masel Tov!
Riassumendo
Il violinista sul tetto, fino al 3 marzo 2019
Teatro Nuovo
DURATA: 180′ minuti + intervallo
ORARI: da martedì a sabato h 20,45; domenica h 15,30; sabato 23 doppia recita h 15,30 e h 20,45
PREZZI: poltronissima vip 59,50€; poltronissima 49,50€; poltrona 39,50€