A 4 anni di distanza dall’acclamato La vita di Adele, con cui si era aggiudicato la Palma d’oro a Cannes, il regista Abdellatif Kechiche l’anno scorso ha portato alla Mostra del Cinema di Venezia la sua ultima fatica, Mektoub My Love: Canto Uno.
Dopo quasi un anno la pellicola è finalmente arrivata anche nelle sale cinematografiche italiane e gli spettatori possono ammirare il nuovo lavoro di un autore che con la sua precedente opera aveva fatto molto discutere. In questo caso le maggiori difficoltà cui potrebbero andare incontro gli spettatori risiedono nella durata monstre, 3 ore circa, e nella scansione narrativa del film, impostata su poche sequenze dalla durata torrenziale, povere di avvenimenti davvero rilevanti dal punto di vista drammaturgico.
Mektoub My Love: la trama
Mektoub My Love è il racconto del ritorno a casa di Amin, studente francese di origini tunisine che decide di passare le vacanze nel piccolo paesino di pescatori sulla costa Mediterranea del sud del Paese, sfuggendo così al grigiore tipico di Parigi. Interrotti gli studi di medicina, Amin ha iniziato a scrivere sceneggiature per il cinema, a scattare fotografie ed è ora in attesa di risposte da alcuni produttori.
Riflessivo, portato alla contemplazione, serio e timido, il ragazzo ha due punti di riferimento nel paese natio: il cugino Toni e l’amica d’infanzia Ophelie, che sorprende di nascosto a consumare un infuocato rapporto sessuale, nonostante quest’ultima sia in procinto di sposarsi con il fidanzato. L’estate di Amin trascorrerà così da una parte al seguito di Toni, seduttore incallito e quasi compulsivo, e dall’altra con la ragazza sempre pronta a confidargli i suoi dispiaceri amorosi; nel mezzo le lunghe giornate in spiaggia, dove conoscerà una coppia di amiche, e le interminabili nottate passate al ristorante dei genitori, al bar o in discoteca, tra un ballo scatenato e l’altro.
Mektoub My Love: recensione
Dal punto di vista narrativo il film è condensato in queste poche righe di riassunto, in quanto gli sviluppi sono davvero minimi. Ancora più che ne La vita di Adele, infatti, sono pochi e chiarissimi gli elementi che stanno davvero a cuore a Kechiche e che sono al centro della messa in scena.
Si tutto la restituzione di un sentimento del tempo molto vicino a quello reale, con il prolungamento indefinito delle sequenze grazie anche a uno stile di recitazione prossimo al miracoloso, spontaneo e anti-accademico, lo studio della luce naturale, che molto spesso è quella liminare dell’alba o del tramonto, e sopratutto l’assoluta centralità del corpo e dei suoi desideri su qualunque altra istanza emotiva o intellettuale.
Gli innumerevoli personaggi del grande cast corale di Mektoub My Love sono infatti ritratti perennemente in movimento, che si tratti di una danza, di uno sguardo o di un dialogo non importa, perché si ha la sensazione che qualunque gesto non sia altro un tentativo o una richiesta di seduzione, dettata anche dallo stile di ripresa che privilegia inquadrature strette e ravvicinate, quasi epidermiche e spesso centrate su natiche e curve femminili.
È il perfetto ritratto di un’estate dal punto di vista di giovanissimi senza alcuna preoccupazione: corpi seminudi che si chiamano, si cercano a vicenda e si toccano, l’energia della musica a fare da motore propulsivo per le nottate in cui il sudore bagna la fronte, e il chiacchiericcio che diventa rumore di fondo, immediata dimostrazione pratica di affetto o strumento di conquista. È l’irriducibile potenza della giovinezza e del desiderio che emerge dalla luce abbacinante dei controluce in cui vengono immersi i protagonisti, oppure dal buio in cui si muovono nelle scene notturno.
Ciò che però distingue Mektoub My Love da uno Spring Breakers è il punto di vista, che è quello del protagonista Amin: taciturno, incuriosito e ammaliato dall’elettricità dell’aria e dell’estasi dei momenti, in realtà il protagonista non compie atti rilevanti o prende decisioni risolutive, andando a rappresentare quella tipologia di intellettuale che osserva e immagazzina pur rimanendo estranea al turbinio della vita.
Le tante avance ricevute da Amin sono perennemente disinnescate col silenzio, e anche il suo ruolo di confessore è proprio di una personalità passiva: in un mondo in cui le parole non hanno particolare valore, e sono subito smentite dalle azioni del corpo e dalle leggi del desiderio, Amin è l’unico a prestare davvero attenzione a ciò che gli viene detto e non a caso nel finale lo si vedrà intento in una conversazione con l’unica ragazza che ha scelto di prendere le distanze dal gruppo di Toni e dei suoi amici.
Nello sguardo del ragazzo – e di Kechiche, probabilmente – non c’è però condanna oppure ostilità, forse solo della malinconia per le occasioni perdute, nonché lo smarrimento di chi si sente almeno in parte estraneo; è così allora che si può spiegare anche l’estenuante lunghezza di alcune sequenze come quella in discoteca (per le quali si potrebbe chiedere ormai inutilmente una sforbiciata), nelle quale la durata infinita è quella percepita da chi non si getta nella mischia ma rimanere a contemplare, per quanto con il sorriso sulle labbra.
Il nostro voto
8