Dopo la trionfale decadenza di Roma, il mistero del Divo Andreotti e il balletto surreale del giovane Papa a Paolo Sorrentino non restava che prendere di petto il personaggio più discusso e di fatto centrale dell’Italia contemporanea: Silvio Berlusconi.
Loro 1, il film in uscita al cinema il 24 aprile, non è però solo un ritratto del “Cavaliere“, ma anche la descrizione della corte che gli gravitava intorno, più o meno direttamente. Il film, della durata di circa 100 minuti, si può infatti dividere piuttosto nettamente in due parti caratterizzate da protagonisti differenti. Nella prima sono Loro, nella fattispecie Riccardo Scamarcio – Sergio Morra (in pratica Gianpaolo Tarantini) ed Euridice Axen – Tamara, la coppia di organizzatori dei festini che si dimena faticosamente in una Roma sempre più sfarzosamente in declino allo scopo di catturare l’attenzione di Lui (“Lui lui?” chiedono incessantemente ai loro interlocutori); allo stesso tempo Loro è anche il pronome utilizzato per indicare tutto l’entourage più stretto del Presidente, attraverso il quale si deve passare nella speranza di ottenere un invito a corte.
Ed è solo nella seconda che compare Lui, come un grottesco demone evocato come un Devilman qualunque da feste a base di droga e sesso sempre più frenetiche. La prima volta che si sente pronunciarne il nome completo è quasi come se se fosse una supplica: “’Ndo cazzo sta Silvio?”, si chiede un Sergio ormai quasi privo di energie e di fondi dopo aver preparato un baccanale – trappola in Sardegna allo scopo di catturare l’attenzione di un Re Sole capriccioso e disinteressato.
Altrettanto nettamente si può dividere dal punto di vista stilistico e drammaturgico questa prima parte di Loro: la sequela di feste, stipate di donne bellissime, danze seducenti, facoltosi anziani accaldati e ansimanti, riporta alla memoria quanto già visto ne La grande bellezza, e la ripetizione di luoghi comuni sia dell’immaginario sorrentiniano che berlusconiano difficilmente riesce a vincere la noia. Tra le panoramiche di una macchina da presa molto mobile si salvano invece i personaggi di Scamarcio, Axen e Kasia Smutniak (Kira ovvero Sabina Began, la cosiddetta “ape regina”), impegnati, tra un ricatto e un reclutamento di ragazze piacenti, in un triangolo sentimentale interessante perché molto sentito nel tentativo di avvicinamento al potere. Più macchiettistico il personaggio di Fabrizio Bentivoglio, miserevole ex ministro costretto a mendicare favori di ogni tipo in attesa di tempi migliori.
Il film però ingrana davvero quando sulla scena compare il Berlusconi di Toni Servillo, che fa la sua entrata vestito come un’odalisca, nel tentativo inutile di far ridere l’amata Veronica (Elena Sofia Ricci, principessa disillusa e annoiata rinchiusa nella villa-castello sardo del marito). Faccia di gomma, espressione gongolante e soddisfatta con gli occhi quasi sempre socchiusi, a metà tra un mostro e un pensionato in disarmo, l’attore si mangia letteralmente la pellicola, pur non dovendo poi fare molto per risultare credibile: il suo Silvio fa battute di cattivo gusto, esibisce arroganza, machismo e spietatezza quando gli fa comodo, proprio come ci si aspetterebbe.
L’umorismo greve è molto presente in questa seconda parte, dopo aver illuminato in parte la prima, e sorregge la totale surrealtà che caratterizza la villa dell’uomo più potente d’Italia, tra pecore, tappetini elastici, giostre, file di schermi televisivi, arredi improbabili e vulcani che si promette sempre di fare eruttare. Un po’ come accadeva per il Vaticano di The Young Pope, cui in qualche misura si ispira.
Se Berlusconi conquista la scena è dovuto sopratutto al carisma del personaggio, perché Sorrentino fa poco per tratteggiarlo in modo inedito, proponendo – efficacemente a dire il vero – un ritratto oramai arcinoto: solo nella parte finale si intravvede la stanchezza dell’uomo-del-fare costretto al riposo forzato, ancora innamorato della sua Veronica nonostante la tentazione delle tante donne (Noemi Letizia compare in alcune scene, ma quella di Silvio pare più il bisogno di sentirsi vivo tramite lo sfoggio e l’ammirazione delle bellezza più che vera lussuria).
Difficile tentare di inquadrare o addirittura dare un giudizio su un’opera che appare evidentemente monca: nonostante il finale richiami La grande bellezza, con analogo ricordo del momento in cui la donna amata si rivolge al suo uomo, tra l’altro in una piazza vuota come quella di San Marco in Youth – La giovinezza, il discorso di Sorrentino sembra poco decifrabile al momento. In un certo senso tutta la prima parte appare la riproposizione dei temi che caratterizzavano il film vincitore dell’Oscar come migliore film straniero, come la necessità di dimenarsi fino a perdere se stessi, di vendere la propria bellezza o di conquistarla (sempre e solo in modo illusorio) al fine di arrivare a un potere altrettanto caduco la cui funzione non è altro che nascondere il vuoto soggiacente.
E il cinema di Sorrentino, da sempre refrattario a qualunque tipo di messaggio o significato e attratto invece dalle atmosfere impalpabili, pare ancora più avvicinarsi a questo vuoto, rimanendone sedotto forse quasi definitivamente (ma senza Loro 2 non si può esserne certi): in un film come questo, in cui tanti dettagli appaiono poco significativi e dunque superflui e che forse poteva essere scorciato in vista di un’uscita unica e unitaria, a rimanere davvero sono pochi momenti di sincerità che esulano dalla denuncia della “mignottocrazia”, come la sorpresa musicale che Silvio fa a Veronica e le confessioni reciproche tra Sergio, Tamara e Kira.
P.S. Qualcuno faccia qualcosa per gli effetti speciali dei film di Sorrentino, sempre più fuoriposto in produzioni faraoniche come questa. In particolar modo l’incidente di un tir carico di immondizia, a causa di un finto topo lanciatosi in strada, si conclude con un cappottamento tra i Fori romani di rara bruttezza: peggio ancora è purtroppo la facile metafora dello stuolo di olgettine ante-litteram che osservano stupefatte il volo della mondezza sulle antiche rovine della città.
Il nostro voto
Senza voto, in attesa della seconda parte
La frase
“Tutto non è abbastanza”