Non è affatto un caso che La forma dell’acqua esca nei cinema italiani il 14 febbraio, il giorno di San Valentino: il film di Guillermo Del Toro, vincitore del Leone d’oro allo scorso Festival di Venezia, è senza ombra di dubbio una delle pellicole più romantiche degli ultimi anni. Un romanticismo che, sentimenti d’amore a parte, si manifesta anche come nostalgia per il cinema classico.
1954: il regista Jack Arnold realizza la pellicola Il mostro della laguna nera, dalle splendide riprese acquatiche che fanno da contorno a una strana, romantica e lievemente licenziosa sequenza di rapimento da parte della protagonista da parte della creatura del titolo. Qualcosa di non troppo dissimile da King Kong, ma dalle connotazioni più erotiche.
2017: il cineasta messicano de Il labirinto del fauno riprende quella suggestione e la traspone nell’America della Guerra Fredda.
La forma dell’acqua: la trama
Elise (interpretata da una meravigliosa Sally Hawkins, che regge tutto il film con la forza dei suoi sguardi e una fisicità molto potente) è la muta addetta alle pulizie impiegata in una base segreta governativa dove si compiono esperimenti molto delicati.
Gli unici amici della ragazza sono Giles (Richard Jenkins), un pittore omosessuale, suo vicino di casa, e Zelda (Octavia Spencer), sua collega afroamericana, personaggi che dunque condividono il suo status di emarginata. Immersa in una solitudine dalla quale non sa come uscire, Elisa stabilisce un rapporto molto speciale con la creatura umanoide e anfibia (cui presta le proprie movenze il collaboratore abituale Doug Jones) che è stata portata nella struttura per essere studiata, sotto la sorveglianza del Colonnello Richard Strickland (Michael Shannon).
Quella che segue è allora l’emozionante e straziante storia d’amore che nasce, poco alla volta e in maniera molto avventurosa (ci sarà anche una vera e propria sequenza di sabotaggio da parte dei personaggi principali), tra Elisa e la creatura. Dopo alcuni mezzi passi falsi, l’horror gotico Crimson Peak e Pacific Rim, Del Toro realizza il suo film più potente e immaginifico dai tempi de Il labirinto del fauno.
Anche in questo caso a fare da sfondo alla vicenda c’è la Storia, ma qui a prevalere sono nettamente i sentimenti. D’altro canto i riferimenti del cineasta messicano sono piuttosto plateali, per quanto rielaborati in maniera personale: le atmosfere di Tim Burton – con lo stesso amore per i “diversi” – il gusto per alcune invenzioni visive e le scelte di fotografia dei primi film di Jean-Pierre Jeunet (a dominare sono i cromatismi verdi-azzurri e marroni, così come le luci nette, di taglio espressionista) e, ancora insuperate, le scene acquatiche di Arnold e Jean Vigo.
Del Toro però è sempre stato molto sanguigno, amante del grottesco e del grand guignol, di certo non un idealista come Burton; non mancano allora dita mozzate, squarci, copiosi sanguinamenti e una forte componente erotica, che viene amplificata dalla grande rilevanza – scontata ma esemplare – data all’elemento acquatico, in un certo senso l’unico “luogo” in cui davvero possa sbocciare la storia d’amore tra i due, anche dal punto di vista dell’espressione fisica di questo sentimento.
La forma dell’acqua: commozione e nostalgia
Come si accennava all’inizio, il film è carico di una notevole nostalgia, abilmente dissimulata in quanto non fa da zavorra per le ambizioni dell’opera. Lo sguardo malinconico di Del Toro abbraccia sia i vecchi mostri del cinema classico, quelli realizzati con tute di lattice, affascinanti anche quando poco verosimili, sia lo stesso cinema dell’epoca d’oro della settima arte.
Un sentimento graziosamente espresso dalla scena in cui la creatura si ritrova a fissare ammaliata il grande schermo di una sala cinematografica in cui viene proiettato un kolossal storico: la metafora è senz’altro ingenua, un po’ come le altre del film e come lo è la musica filologicamente romantica della colonna sonora di Alexandre Desplat, ma proprio per questo arriva in modo perfetto.
In un’altra sequenza, che non sveleremo, si può trovare persino una riflessione non banale sul ruolo di certi personaggi “mostruosi” o semplicemente “estranei” all’interno nel cinema di Hollywood: ridicoli, quando inseriti in un conteso che non appartiene loro, ma in realtà portatori di una propria irriducibile dignità.
E nella scena finale è davvero difficile non commuoversi quando un piccolo dettaglio visto varie volte si trasforma, in modo prevedibile ma del tutto dirompente, nell’ultimo colpo basso inferto da Del Toro ai condotti lacrimali degli spettatori.
Voto
8½
Una frase
“Incapace di percepire la tua forma, ti ritrovo ovunque intorno a me. La tua presenza mi riempe gli occhi con il tuo amore, e commuove il mio cuore, perché sei ovunque”