Uscirà a giugno il film Rendez-vous à Atlit (titolo italiano: La casa delle estati lontane) della regista israeliana Shirel Amitai, proiettato in anteprima al Festival dei Diritti Umani.
Israele 1995. Darel (Yael Abecassis), Cali (Geraldine Nakache) e Asia (Judith Chemla), sono sorelle emigrate dalla loro terra, si ritrovano nella casa dei loro defunti genitori, per venderne la proprietà. Vite umane che si intrecciano con la storia. Il 1995 è l’anno del processo di pace in terra di Israele e tre sorelle, come una parabola “cecoviana”, condividono speranze, ricordi, vecchi rancori e divertenti schermaglie entro un microcosmo in cui affondano le loro radici come la loro terra natale. Amitai, anch’essa emigrata in Francia, intende ricostruire un evento storico importante attraverso il legame e il punto di vista di Darel, Cali, Asia che, come la regista, hanno dovuto sradicare la loro vita, in un continuo conflitto fra le proprie origini e ciò che sono diventate.
A testimoniare questo senso di doppia identità, il film si anima, con un tocco fantasioso delle “presenze”, il “mondo invisibile”, che ha abitato le mura. I fantasmi (nella eccezione positiva) dei genitori, una coppia di simpatici brontoloni, che interferiscono e vivacizzano come una ventata di positività quei giorni di attesa, mentre una terza e misteriosa “entità” diviene il simbolo di quella pace così vicina. Una prospettiva che si vanifica il 4 novembre con l’assassinio di Rabin e la violenta interruzione di quella svolta tanto sperata.
Rendez-vous à Atlit è un film semplice e spontaneo, leggero, ma carico di implicazioni umane. Una pellicola in cui Amitai, nonostante la Storia, intende far passare un messaggio di speranza. Buona l’interpretazione del trio Abecassis, Nakache, Chemla, irresistibile Pippo Delbono attore imprestato dal teatro, nel ruolo del padre, uno spettro bisbetico e bonario. Rendez-vous à Atlit è un film simbolico, è questa la chiave per affrontare la visione della pellicola. Amitai descrive, per tutta la durata, un microcosmo forse un po’ troppo chiuso, una scelta indubbiamente voluta nel parallelismo fra la terra divisa e ceduta e la “casa” coabitata fra tre sorelle e lasciata al miglior offerente. Questa “segregazione” trascina lo spettatore in una sorta di isolamento quasi voluto, un “fortino di speranza” sospeso nel tempo, che rende un po’ più difficile e meno visibile quello che c’è “fuori”.
Voto per noi: 6.5