Un tavolaccio, due sedie, un paio di panche: è la scenografia povera di uno spettacolo “frontale” ma inclusivo, in cui il pubblico non assiste soltanto ma è fatto partecipe della narrazione e della sua ragione più profonda: l’essere un manifesto poetico contro la pena di morte, uno dei crimini più feroci e controversi del mondo contemporaneo, tuttora in voga in molti paesi, a prescindere dal loro grado di sviluppo.
C’è grande complicità e pathos nello spazio neutro, reso più astratto dalla camicia di teli neri, fra i due cantori della “Ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde. A Giovanna Marini, autrice delle musiche, il compito di cantare in lingua originale, accompagnandosi con la chitarra, una melopea che scaturisce dai versi in rima dello scrittore irlandese processato, condannato e recluso per il reato di sodomia (leggi omosessualità) in una prigione vittoriana, alla fine dell’800. A Umberto Orsini quello di far risuonare uno strumento diverso, il libro che contiene il testo tradotto in italiano della Ballata.
Lo spettacolo, che si avvale della regia in punta di piedi di Elio De Capitani, nasce proprio dal contrasto tra queste voci diverse, nel registro e nei toni. Alta e carica di echi drammatici quella della Marini, calda e pacata quella di Orsini, che legge, senza impersonare, il testo della Ballata in cui Wilde traspose la propria personale tragedia (l’opera è del 1897, a liberazione avvenuta, l’artista morirà tre anni dopo, quarantaseienne, all’alba del nuovo secolo) raccontando la via crucis verso il patibolo di Charles Thomas Wooldridge, capitano della guardia regia, una “giubba rossa” punita per avere ucciso la propria moglie nel letto nuziale (“each man kills the things he loves”: ogni uomo uccide ciò che ama) e ucciso a sua volta per impiccagione nel carcere di Reading, il 7 luglio 1896, durante l’ingiusta detenzione dell’autore del Ritratto di Dorian Gray.
Spettacolo per palati fini, la Ballata colpisce la mente e il cuore grazie alla scelta di mantenere l’inglese aulico nelle canzoni (perché, come spiega all’inizio Giovanna Marini “in italiano c’è sempre una sillaba di troppo”) e di favorire la comprensione con la lettura a specchio, in italiano, nella traduzione curata dallo stesso Orsini con Elio De Capitani. E il pubblico, sempre numeroso, gli dedica una calda e commossa accoglienza.
Al Teatro Elfo Puccini fino a domenica 18 maggio