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Un grottesco e perverso bisogno d’amore nel film Il filo nascosto

il filo nascosto recensione

Può un’opera svelare il senso (o almeno uno dei significati più profondi) del proprio intreccio, lavorando in maniera sotterranea per la maggior parte del minutaggio? Qualità a parte, ovviamente altissima, è questa la domanda che pone – agli spettatori così come alla critica – un film enigmatico quale si rivela essere Il filo nascosto, ultima fatica di Paul Thomas Anderson, uno tra i pochi grandi autori contemporanei.

Dopo il caotico, erratico, psichedelico Vizio di forma, ecco arrivare nelle sale italiane il 22 febbraio un esempio di apparente classicismo, quasi un gioco di prestigio cinematografico considerando l’abilità con cui dissimula la propria complessità in una messa in scena limpida, di grande eleganza e rigore formale.

Il filo nascosto: la trama

La storia è quella del sarto Reynolds Woodcock, le cui creazioni sono apprezzate da ogni tipo di celebrità, dai reali alle star del cinema fino alle ereditiera abbonate alla mondanità: i suoi abiti sono in grado di svelare la bellezza nascosta delle sue clienti, o esaltare fino al parossismo lo stato di grazia delle stesse.

Come tutti i grandi geni, anche Reynolds è ossessionato dalla propria arte, e per “funzionare” al meglio ha bisogno dell’assistenza costante della sorella Cyril, l’altra metà della House of Woodcock: una donna che, in una sorta di rapporto platonicamente semi-incestuoso, fa da contraltare pragmatico alle nevrosi e alle intemperanze dell’uomo,  tanto affascinante quanto incapace di mantenere vivo troppo a lungo l’interesse per una relazione duratura.

Le donne che frequentano il suo letto – e sopratutto la sua tavola (almeno fino a che non devono essere congedate da Cyril) – sono amanti o tutt’al più muse momentanee, ma mai davvero partner alla pari. Reynolds si considera inadatto all’amore perché troppo forte, come afferma con diletto, ma forse è solo pervaso dal costante impulso alla creazione che gli richiede uno sforzo febbrile tale da occuparne tutte le energie.

Sulla sua strada però appare Alma, giovane ragazza senza alcuna qualità evidente, se non quella di essere un modello perfetto per gli abiti del sarto, con il quale si instaura subito una relazione sentimentale. Gli snodi del rapporto sono tutt’altro che insoliti e imprevedibili, per chi ha visto qualche film in vita sua: felicità, incomprensioni, opposte esigenze e aspettative che si scontrano.

Tuttavia, tra un incidente di percorso (fortuito o provocato), Alma riuscirà a prendere il proprio posto nella vita di Reynolds, con una caparbietà e una sfrontatezza che nessuno le avrebbe riconosciuto, andando anzi a compensare, quasi in maniera simbiotica, fragilità e fratture del suo amato.

Anderson imposta il suo film come un melodramma british (il film per la prima volta nella carriera del regista, grande osservatore della realtà americana, è ambientato nel Regno Unito) ma prosciugato di ogni sentimentalismo e affettazione, all’insegna dell’eleganza e della compostezza.

Lo spartito della colonna sonora di Johnny Greenwood è filologicamente accurato e, tra languidi pianoforti, archi che volteggiano e chitarre a scandire il ritmo, sembra confermare questa sensazione, se non fosse per quell’aria di mistero. Anche la fotografia, attribuita allo stesso Anderson (il quale parla di un lavoro collettivo e partecipativo) è attenta a catturare tagli e bagni di luce abbacinante simulando fonti di illuminazioni realistiche, fornendo quadri affascinanti in cui un alone di mistero rimane in sospensione.

Come, e forse in modo molto più dirompente rispetto a The Master, dove la questione era affrontata direttamente, anche Il filo nascosto parla di un rapporto di potere, in cui le parti si capovolgono e debolezza e forza si scambiano i ruoli: laddove Reynolds, che non ha mai superato la morte della madre, vorrebbe impostare la sua vita secondo un algido rituale di creatività, rispetto delle sue regole arbitrarie e culto della bellezza, lì si infiltra Alma, piantando i propri semi in un terreno da sempre in attesa di essere fertilizzato.

Nella sceneggiatura di Anderson, che spontaneamente ammette di non sapere perché scelga di girare i film che gira, c’è qualcosa di sinistro e insieme beffardo, che esce allo scoperto lentamente grazie a un lavoro preparatorio molto accurato. Uno humour nero sottilissimo si innesta, quando di norma non dovrebbe, in situazioni altrimenti drammatiche: è un’ironia carica di understatement, forse l’unico modo per trattare una materia evanescente, fantasmatica e bollente al tempo stesso come quella scelta dal cineasta.

Tantissimo cinema americano è spesso incentrato sulla figura del genio, artistico o meno: una persona dotata di caratteristiche eccezionali e di una sensibilità spiccata, elementi che rendono impossibile un’esistenza normale. Al suo fianco troviamo allora una creatura che tenta di guarirlo e di riportarlo all’alveo della normalità, riuscendoci o meno (con scarto di tono e atmosfera a seconda dei risultati).

Anderson, per una volta, si pone il problema opposto, e ovvero: chi è questo personaggio che non vuole sanare il genio ma vivere al suo fianco, che ama tutto ciò che lo rende insopportabile agli occhi altrui, e che per propria natura – c’è una forte componente di sadomasochismo nel film – è disposto a fare leva proprio su quelle ferite che vengono esibite con fiducia quasi a saggiare la capacità dell’altro di comprenderlo e soggiogarlo?

Il filo nascosto: l’ultima prova di Daniel Day-Lewis

Quella che poteva apparire come stolidezza di Alma diventa risolutezza feroce, la maschera di rigidità di Reynolds, che crea abiti perfetti “svestendo” le sue clienti delle loro personalità per farne suoi ideali di bellezza, in un tentativo di annullarle, trascolora in un bisogno infantile di essere accudito e dominato. Sembrerà grottesco, ma poche scene possono eguagliare il sentimento un po’ perverso di mutua necessità come il finale ambientato nel bagno – sì, nel bagno e in un momento “delicato” – della residenza di campagna dei Woodcock.

Il merito è sia della prova maiuscola di Daniel Day-Lewis, qui alla sua possibile ultima parte, che riesce a dominare la scena con pochi gesti e a esprimere un carisma immenso in un volgere dello sguardo, sia della scoperta Vicky Krieps, in grado di tenergli testa e di non sfigurare dinanzi a un simile colosso della recitazione.

Sono i momenti in cui i due si guardano in silenzio, stupefatti l’uno dell’altro, privi di parole, scossi da risate prive di senso, a esprimere l’indefinibile, quell’abisso in cui la coppia si perde volentieri, quell’ambiguità del sentimento d’amore che non prevede e desidera un perché ma che, al netto di ogni motivazione razionale e comprensione, vive di un’urgenza irrefrenabile.

Voto

8

Una frase

Essere innamorati di lui rende la vita un mistero da niente

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