Il 13 marzo arriva nelle sale italiane Ida, del regista polacco Pawel Pawlikowski. Si tratta di un film rigoroso, ma seducente, girato in bianco e nero e con una ratio particolare (1:1.37) il cui risultato è un formato quadrato che inizialmente lascia spiazzato lo spettatore.
Nella Polonia del 1962, Anna (l’eterea Agata Trzebuchowska) è una giovane orfana cresciuta tra le mura del convento dove sta per diventare suora. Poco prima di prendere i voti, apprende di avere una parente ancora in vita: è Wanda (Agata Kulesza), la sorella di sua madre, una donna indurita dalla guerra; soldato, giudice e membro di spicco del partito socialista polacco, Wanda cerca di dimenticare un terribile dolore fra alcool e storie di una notte. L’incontro tra le due donne segna l’inizio di un viaggio alla scoperta l’una dell’altra, ma anche dei segreti del loro passato; Anna apprende infatti di essere ebrea: il suo vero nome è Ida, e la rivelazione sulle origini la spinge a cercare le proprie radici e ad affrontare la verità sulla sua famiglia, insieme alla zia. All’apparenza diversissime, Ida e Wanda impareranno a conoscersi e forse a comprendersi: alla fine del viaggio, Ida si troverà a scegliere tra la religione che l’ha salvata durante l’occupazione nazista e la sua ritrovata identità nel mondo fuori del convento.
Ida è un film atipico e per questo decisamente interessante: girato secondo i canoni dei film classici europei d’autore, colpisce per le inquadrature fisse, le atmosfere cupe, i silenzi e l’uso attento della colonna sonora. Ma la soggettività dei suoi personaggi è dirompente e sovverte le regole dell’inquadratura, con i visi spesso ai lati della composizione, come nel décadrage. Ottanta minuti che certo non scorrono leggeri e che hanno un che di documentaristico: c’è distacco nel raccontare gli eventi che portano Ida a decidere della sua vita, ma c’è anche tanta poesia e un affetto tangibile per le protagoniste. Ida e Wanda sono le due facce dell’innocenza perduta di una Polonia in cui le ferite della guerra e dell’Olocausto sono ancora aperte, ma anche una finestra aperta sulla modernità e sul futuro che bussa alla porta, fra lo swing e le rivendicazioni del Sessantotto.
Il nostro voto: 6 e mezzo
Una frase: “E poi?”
Per chi: ha voglia di provare un modo di fare cinema diverso, ma sempre autoriale.