Se amate i gialli, o meglio i noir, e li preferiti ambientati a Milano in modo che tra il chiedervi chi ha ammazzato chi, potete anche conoscere nuovi posti o ritrovare quelli cui siete affezionati, siamo sicuri che lo conoscete già.
Parliamo di Gianluca Ferraris, scrittore e giornalista (attualmente vice caposervizio a Donna Moderna, con un passato a Panorama) ma soprattutto di Gabriele Sarfatti, il personaggio da lui creato. Giornalista di nera obeso e amante delle droghe, freelance o forse meglio dire precario, ha contemporaneamente un amico poliziotto e un amico spacciatore, Zucchero, che non la smette di dare “perle di vita”.
Sarfatti è il protagonista dell’ultimo giallo che Ferraris ha ambientato a Milano e che vi avevamo consigliato anche tra i libri da regalare a Natale, dal titolo “Shaboo”. Così come lo è degli altri della trilogia: “A Milano nessuno è innocente” e “Piombo su Milano” (tutti di Novecento editore).
In occasione della serata organizzata da Covo della Ladra – Ladra di Libri che proprio ai gialli è dedicata , abbiamo intervistato Gianluca per sapere se si fermerà a 3 libri o no, e anche come vive questa città da professionista che ci è arrivato anni fa da Genova.
A Milano e alla sua parte più nera hai dedicato una trilogia di libri usciti l’uno dietro l’altro con tematiche varie: Expo, rom e droghe. Avendo fatto varie ricerche prima di scrivere questi testi come hai più volte dichiarato, ci puoi dire se è cambiata Milano tra un libro e l’altro? E se sì, in cosa?
“Ormai vivo qui da più di 15 anni e se nella prima fase i cambiamenti che ho osservato mi sembravano parecchio schizofrenici, devo dire che oggi stiamo vivendo un momento favorevole: il dopo Expo ha portato all’attenzione internazionale una città che ora appare più europea, il turismo è in crescita, si vedono in giro stranieri di ogni età ed estrazione e non più soltanto russi, arabi e giapponesi che assaltano il Quadrilatero. Milano, insomma, è diventata più attrattiva“.
Milano a Sarfatti piace e non piace, come ogni migrante la ama e un po’ lo odia (o almeno così cisembra). E a te che sei l’autore chiediamo: qual è il tuo rapporto con Milano? Scrivendo questi libri cosa hai scoperto di Milano che non ti saresti aspettato?
“Ho l’impressione che Milano fatichi ancora a disegnare per sé un futuro, soprattutto dal punto di vista sociale. Anche le persone mi sembrano più indurite. Non voglio generalizzare, ma c’è tutto un mondo di valori, ambizioni e gesti solidali che mi pare in caduta libera. Ambire a essere la Londra o Berlino del 2030 è un’ambizione legittima, e – per rispondere alla seconda parte della tua domanda – offre anche parecchie opportunità: sociali, lavorative, anche di crescita umana.
Ma se ci arrivi nel modo sbagliato rischi anche di ripetere e amplificare gli stessi errori: gentrificazione, affitti alle stelle, aumento delle diseguaglianze, isolamento e criminalizzazione delle periferie e così via. Sono gli stessi elementi che provo a trasferire nei miei libri, anche se la mia percezione, se vogliamo dire così, è più benevola rispetto a quella del protagonista”.
Quali sono le tue fonti quando scrivi ? Sicuramente attingi al tuo lavoro da giornalista, ma in che modo? E come altro ti documenti? Insomma, come sei arrivato alle tre tematiche?
“L’esordio è sempre lo stesso: leggo qualcosa che mi colpisce e che per qualche ragione mi va di raccontare e sviluppare meglio. Anche le fonti sono più o meno le stesse che utilizzo quando devo scrivere un articolo e ho necessità di documentarmi su qualcosa che non conosco a fondo: parto dai documenti e dalle statistiche ufficiali, cerco di parlarne con chi ne sa più di me, di sentire i testimoni o le persone che hanno un’opinione più strutturata.
Rispetto al lavoro giornalistico puro, però, cambiano due cose: la prima è che il mio punto di vista è meno distaccato, la seconda è che posso permettermi variazioni anche significative dal punto di vista narrativo. Il noir è ormai uno degli strumenti principali di denuncia di determinate realtà: non bisogna più inventarsi nulla, perché è la cronaca a offrirci quotidianamente storie ai dettagli così violenti che superano di slancio la fiction. Altre volte, come provo a fare anche io, i due ambiti finiscono per contaminarsi, anticiparsi e “raccontarsi” a vicenda. In fondo lo scrittore è sempre stato un osservatore e una sorta di “filtro” fra la contemporaneità e la pagina, no?”.
Certamente. Sarfatti vive in zona sud est, ma si sposta molto durante tutta la trilogia in vari quartieri e frequenta vari locali. Se dovessi consigliare a un non milanese, ma anche a chi a Milano ci vive quali di quelli menzionati nei libri consiglieresti? Sia quartieri che locali?
“Come dicevo prima, Milano offre un sacco di possibilità. Per ora, la mia zona preferita, che è poi la stessa dove vivo per ora io e nella fiction vive anche Gabriele Sarfatti – uno dei pochi tratti veramente autobiografici, ma in fondoSteinbeck diceva «scrivi di ciò che sai»… – è ancora quella compresa fra viale Montenero, Porta Romana e la parte bassa di Città Studi. Lì ci sono anche i locali e ristoranti che prediligo: l’Elettrauto (uno dei locali preferiti di chi scrive questa intervista, ndr) e il Charlie Brown di via Cadore, entrambi finiti di striscio nei miei libri; la Cascina Cuccagna; il Mom. E il parco Marinai d’Italia, dove mi rifugio a passeggiare o a leggere appena posso”.
C’è qualche aspetto sulla personalità di Sarfatti che avresti voluto approfondire e non hai avuto modo? O qualche tematica su Milano? E se sì, credi che andrai oltre la trilogia?
“La verità è che l’ho sempre immaginata come una serie a tre, ma mi è piaciuto così tanto scriverla e ho ricevuto così tanto affetto che ci sto pensando. Perché l’alchimia si ripeta devo però trovare un’altra storia che colpisca me, prima ancora di un editore e di un lettore. Fortunatamente gli spunti non mancano”.
Sarfatti è obeso, un “drogato” e un donnaiolo con una donna nel cuore e nella testa, eppure la gente lo ama. Secondo te perché?
“Se per gente intendi il pubblico, credo che Gabriele piaccia perché è caricaturale ma non artefatto e sembra, almeno a me, più vicino agli schemi della mia generazione rispetto ad altri investigatori seriali di cui leggo. Sarfatti è un cronista di nera, un tossicodipendente, un single e un quasi quarantenne: in pratica tieneinsieme le quattro categorie che più di tutte tendono a vivere, a volte con certo compiacimento autoassolutorio, in un eterno presente. Davanti alle cose che gli accadono, si tratti di omicidi o di una fidanzata che lo lascia, reagisce con indolenza e fatalismo, cosa che nella vita reale raramente possiamo permetterci di fare“.