Compositore e cantautore milanese (doc), Folco Orselli ci racconta il suo ultimo album “Blues in Mi – Vol. 1”, mentre beve un calice di rosso negli studi di IndieHub di via Bramante da Urbino.
Un album di dodici tracce, che anticipa una serie di eventi lunga un anno con la pubblicazione, prevista per il prossimo novembre, del secondo volume: “Blues in Mi – Vol. 2”.
I brani sono: “La gente”, “Pericolosamente retroattivo”, “Como e Carne”, “Oh Marleen”, “Che tu lo voglia o no”, “Buio (storia di una strega)”, “Il gioco”, “Lo scaldabagno”, “Paolo Sarpi Blues”, “La notte ha mille occhi (Lousiana), “Quel che resta di te”, “Bicchierate”.
Nel disco, al fianco di Folco Orselli (voce, chitarre, percussioni e cori), hanno suonato Enzo Messina (piano, wurlitzer, hammond, chitarra wha e slide, programmazioni e percussioni), Leif Searcy (batteria), Paolo Legramandi (basso elettrico e acustico), Daniele Moretto (tromba), Pepe Ragonese (tromba), Valentino Finoli (sax), Luciano Macchia (trombone) e Francesca Risoli(cori).
Perché questo disco?
Avevo voglia di fare un disco blues, anche se questo non è propriamente e solo blues.
È da un po’ che volevo usare questo termine come titolo di un mio lavoro, come una dichiarazione di intenti.
Ed ecco “Blues in Mi – Vol. 1” e “Blues in Mi – Vol. 2” che uscirà fra un anno.
Questo disco è il risultato di un periodo difficile: pensavo di non aver più voglia di scrivere canzoni che mi piacessero.
Perché tutti possono scrivere delle canzoni, ma farlo senza un’ispirazione genuina e solo in modo “mestierante” non è quello che mi piace fare.
Pensavo di non avere tante idee e invece mi sono sbagliato: una volta che mi sono seduto, sono venute eccome e sono contento anche del fatto che sia un disco allegro.
Cosa troviamo in questo disco?
Ci sono tanti veri strumenti, come i fiati dei musicisti che mi accompagnano da tanti anni; ci ritroviamo me che suono tutte le chitarre ed è stata una novità perché spesso ho suonato con altri chitarristi.
Ma in “Blues in Mi”, questo “mi” nel dialetto milanese vuol dire “me”, doveva esserci un suono che restituisse la mia storia: ecco la scelta di suonare io stesso le chitarre.
Poi, troviamo un po’ di parole, di storie e mi piace raccontare delle cose che succedono: di moltitudine, di persone.
Viviamo un’esistenza nostra, ma intorno a noi miliardi di esistenze vivono la loro; questo è un rebus che mi ha sempre affascinato: capire cosa succede, immaginare le vite altrui e raccontarle.
Questo disco contiene tante storie come un forziere di idee inesauribile.
C’è anche l’influenza di artisti della tradizione milanese, come Giorgio Gaber.
Ne ho molti di padri artistici, come chiunque fa questo mestiere.
A Milano abbiamo, appunto, Gaber, Jannacci, Svampa, Concato.
Sto cercando di “ucciderli freudianamente” uno ad uno: è un percorso per trovare la propria voce.
Mi sono ispirato a tantissimi italiani e non, ma in questo disco c’è molto più di me rispetto a quelli precedenti e non è stata una cosa voluta.
Si può scrivere mettendosi delle maschere che cambiano a seconda di quello che si vuole raccontare il modo, ma se vuoi essere realistico devi toglierla e guardarti dentro nel modo più sincero.
Questo disco ha fatto un percorso decostruttivo: ho tentato di essere molto più vicino alla mia voce e ho evitato di raccontare in modo mascherato le vicende.
Questo non vuol dire che non lo rifarò perché mi piace il teatro, il suo linguaggio.
Mi parli della Scuola Milanese?
La Scuola Milanese è un concetto abbastanza ampio, cioè che c’è una forte scuola improntata all’hip hop, rap, trap e questi generi e un’altra intesa a recuperare e “prendere il testimone”.
Intento la Scuola Milanese di Jannacci, Gaber e gli altri artisti; in questo momento c’è una specie di “fioritura” perché ci sono tanti nuovi artisti che utilizzano l’autoironia, che è la carta d’identità del modo di fare musica a Milano.
L’ironia, la surrealità hanno sempre caratterizzato la musica di Milano, come l’unione tra i cabaret, il teatro, il jazz e i cantautori.
A differenza, magari, dei livornesi che si prendono un po’ sul serio; ci colleghiamo un po’ alla scuola napoletana che ha un modo particolare di ridere delle cose un po’ simile alla nostra.
La Scuola Milanese è percorsa da me, dai miei colleghi come Carlo Fava e Flavio Perini, e la portiamo avanti, flirtando con il teatro-canzone.
L’offerta esiste, ma la domanda deve riqualificarsi un po’.
Come nasci musicalmente?
Nasco da una grande confusione di ascolti che mi facevano fare i miei fratelli.
Mia sorella era una cultrice di musica, fissata con De André e da piccolo mi faceva paura, è stato un trauma perché a sette anni mi faceva paura la sua voce.
Mi hanno fatto ascoltare anche Pink Floyd, Genesis fino a Dalla, Battisti fino a Vasco Rossi.
Una delle mie prime emancipazioni musicali, che ho scoperto da solo è stato Tom Waits, che ha segnato gran parte della mia fase artistica.
Lo stesso vale per Neil Young.
E poi è arrivato il blues in cui ho trovato quel feeling che mi piaceva ritrovare anche in altri generi che non erano propriamente blues, ma comunque influenzati.
Quando parlo di Blues, non mi riferisco solo alle 12 battute, ma anche al modo di fare, di camminare , di trattare il tempo sia musicale che il proprio.
Quali canzoni, non scritte da te, che ti raccontano e potrebbero presentarti?
Ho divorato la discografia di Enzo Jannacci e lui diceva delle cose che non si capivano: faceva questi giochi di prestigio nelle anime altrui, ti dava uno scenario in cui tu potevi capire e non capire cosa volesse dire.
Stava a te riempirlo delle tue esperienze.
Per esempio, la cover del disco precedente di “Only you”: mi ricordo di mio padre che metteva su questo album durante i nostri viaggi e io non capivo assolutamente di cosa stesse parlando.
Ma capivo che mi stava consegnando un malloppo di malinconie che un giorno avrei dovuto gestire, senza farmi troppo male.
Jannacci mi consegnava questo suo dualismo: la canzone apparentemente ridicola e quella profondissima erano saldate insieme nelle parole che diceva.
Un’altra è “Si vede” che è, nello stesso tempo, surreale e realissima, fa una cronaca di quello che vede, ma senza troppo girarla a suo favore, lo fa in modo cinico e grottesco.
Queste due canzoni descrivono quello che faccio e il modo in cui lo faccio.
Suoni la chitarra e il pianoforte. Come ti sei avvicinato a questi due strumenti?
Sono un autodidatta, per entrambi gli strumenti.
Quando ero giovane, mio fratello suonava la chitarra, principalmente pezzi di James Taylor, Bob Dylan, e mi ha insegnato i primi accordi.
Ho avuto un trauma con la chitarra: quando avevo vent’anni, dopo aver lavorato tanto per comprarla, me l’hanno rubata e non l’ho più ritrovata.
Da quel giorno ho un rapporto un po’ distaccato con lo strumento.
Per quanto riguarda il pianoforte, ad un certo punto ne ho affittato uno e ho iniziato a suonar e a buttar giù delle cose.
Mi porta in un mondo un po’ più intimo, mi serve per comporre.
Con questi due strumenti mi alterno tra la malinconia e la follia.
Che rapporto hai con le dinamiche, promozione, vendite album, della musica di oggi?
È cambiato tutto, non esiste più la forma “classica” dello sviluppo dell’artista: fai il disco, c’è la promozione poi i live.
Oggi, invece, i dischi non si vendono, la promozione si fa però i concerti sono sempre pochi; c’era una figura fondamentale, quella del produttore, ma sono scomparsi.
La discografia non produce più: siamo nell’epoca della tirannia della domanda, sono stati sconfitti dal mercato libero, la gente non compra, ma scarica i dischi.
E adesso sono costretti a inseguire questa “tirannia” e adesso non ha più importanza se una persona vale o meno: fa milioni di visualizzazioni e viene prodotto.
Questa è tirannia e non c’è più quello che facevano i discografici cioè quello di cercare gli artisti e farli capire e conoscere alla gente.
Non c’è più questa cosa, adesso lo producono in base ai numeri.
Non c’è una crescita artistica?
Non c’è una crescita artistica e non c’è più scouting.
Gli artisti non sono quelli che si vanno a mettere in fila per i casting di X-Factor, non ci vanno perché si sentirebbero in imbarazzo.
I giovani, i vecchi si sentono in imbarazzo se qualcuno li chiude in una stanza e dice “cantami questo” senza musica.
Ma cos’è? E gli artisti non ci vanno e in questo momento sono un po’ quelli lasciati in disparte, non vengono prodotti.
La conseguenza è che l’asticella si abbassa, la qualità non è delle migliori.
Ma c’è anche una parte positiva: un mondo in cui l’energia si sviluppa quando c’è un contrasto, come in fisica, le particelle creano energia quando si scontrano.
Quindi questo è il momento in cui vedremo, tra un po’, rinascere un po’ un mondo nuovo. Sono ottimista.
A questo disco seguirà una serie di docufilm. Quale parte di Milano vuoi far venir fuori?
Quello che segue sarà un percorso molto articolato: ci sarà la mia musica, ma non sarà il punto centrale.
Ci saranno storie che racconterò e girerò insieme al Terzo Segreto di Satira: sono cinque docufilm slegati che verranno collegati in un unico documentario nel 2020.
Ho voluto portare a termine un percorso, intrapreso da sempre, cioè quello della visione periferica: le storie non sono “centrali”, ma descrivo quello che sta intorno, come le periferie che sono il braccio della città.
In questi anni Milano ha fatto passi da gigante, ma che deve completare, specialmente per quanto riguarda le periferie.
È di questi luoghi che voglio raccontare le storie ed è qui che si ritrova l’identità di una città, perché i centri si assomigliano un po’ tutti, e la maggior parte della gente vive in periferia.
Andremo a toccare tutte le circoscrizioni periferiche di Milano, con una serie di azioni artistiche: dai video ai concerti, dalla danza al cinema.
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