Mancano ormai pochi giorni all’uscita, il prossimo 19 aprile, dell’omonimo album “Eman”.
Emanuele Aceto all’anagrafe, il cantautore presenta 10 nuovi brani con cui racconta la quotidianità e tutte le sue sfumature con cui analizza la vita e la società.
«Eman è il disco che volevo scrivere. Dentro ci sono le parole, le immagini e i concetti che volevo esprimere e che hanno preso corpo e anima grazie alla musica di Mattia (SKG). Negli ultimi anni mi sono dedicato completamente alla musica senza preoccuparmi delle aspettative e senza mai guardarmi indietro. Ne è venuto fuori un (concept)album intimo sì, ma di un intimità collettiva. Nei brani che lo compongono, chiunque può ritrovare un po’ del proprio vissuto e osservare e riflettere su uno spaccato del mondo che lo circonda».
Questa la tracklist dell’album: “Danziamo Dentro Al Fuoco”, “Icaro”, “Fiume”, “Giuda”, “Tutte Le Volte”, “Silk”, “Milano”, “Senza Averti Vista Mai”, “3 a.m.”, “Ritorno a Casa (La Ballata di Aldo il Clochard)”.
La nostra intervista a Eman
Ci racconti di come è nato questo album e di cosa ha di diverso rispetto al precedente?
Le differenze col vecchio è un discorso di tempi, direi di maturità, però non so se tra due anni sarò ancora più maturo di oggi quindi me la evito, però sicuramente un’evoluzione della musica.
Con il primo album non c’è stato un vero e proprio progetto per quanto riguarda la scrittura, piuttosto un raccontare le esperienze con i brani; c’è stata una selezione nella scelta, ma non nel modo di scrivere.
Invece, con questo c’è proprio una linea, è un concept album: affronto l’uomo e la donna in sé, che vive nella quotidianità.
Racconto ogni cosa che avviene, quando si innamora o si sente solo, oppure cade e si rialza, qualsiasi vicissitudine che sia comune agli uomini.
Anche il passaggio da una major ad un’indipendente ha influito: c’è una diversificazione nello scrivere, nella musica e nell’immagine.
Fondamentalmente, quando cresci vuoi far vedere che il cambiamento c’è anche nella tua musica. Quindi è un progetto totalmente nuovo, una rinascita.
Cosa c’è in questo album delle influenze precedenti?
L’evoluzione della musica è personale.
In questo album c’è il nostro suono, quindi quello di “Amen”, quello di” Insane”.
Abbiamo abbandonato completamente il reggae perché era un mondo iniziale.
Siamo contenti anche che la musica italiana sia cambiata: se pensiamo “Al Mio Vizio”, che è del 2009, facevamo già una forma di cantautorato su musiche che potevano essere più simili al rap.
Quello che facevamo anni fa, oggi è quello che sta per esplodere.
“Icaro”, “Milano”,“Tutte le volte” e Giuda hanno anticipato questo album. Perché hai scelto questi?
Nella scelta dei singoli entro poco in merito perché non riesco a dare un valore più alto a un brano anziché un altro.
Questi pezzi sono scelti perché mostrano il campo di sperimentazione che abbiamo affrontano nell’album e per quanto possano essere vari hanno una linea comune, ma non sono effettivamente i brani più belli.
Mi piace dirlo perché è una cosa che è voluta e volutamente toglie per dare importanza nuovamente all’album in un periodo in cui i brani, il singolo, è più importante dell’intero lavoro in sé.
C’è una parte del testo di Milano in cui canti: “Non riesco ad inserirmi non so stare in fila quando faccio la spesa o attendo in metrò-, mi capita spesso poi scivolo dietro mi consolo pensando a quale occasione avrò e mentre ti attendo giù da dietro una tenda una radio che suona”.
Quel “non riesco ad inserirmi” è effettivamente il malessere di chi viene da fuori, “da giù” in particolare, dalla periferia e alcune dinamiche sono estranee.
Stai in fila, però non la sai fare “furba” come gli altri e ti passano avanti anche mentre sei al market.
Dico in maniera ironica qual è questa novità e la cosa che mi fa restare in questa città: probabilmente mi darà un’opportunità, quindi sorrido e vedo quello che avviene.
Il discorso è che, sicuramente, è un posto dove ti scopri più solo: vedo più solitudine a Milano che in un luogo piccolo, come può avvenire anche a Roma.
Non ritrovo uno spazio così umano nella mia idea di città, e di luogo dove vivere.
Mi spiego meglio: nella metropoli c’è molta solitudine, non c’è un vivere comune, ma un accompagnarsi. Milano è il posto dove ci sono più cani che bimbi e ti dovrebbe fare un po’ intendere la cosa, “perché tu hai un cane di compagnia?” Perché sei solo!
Come ti definiresti artisticamente e in che “genere” ti inserisci?
Mi presento come un cantautore, forse.
Scrivo ogni singola parola di quello che canto, vivo di questo quindi direi “artista”, ma solo perché c’è scritto nei contratti.
Quindi ti chiamano artista, ma sono uno che ama scrivere, ama quello che fa e sa fare solo quello, probabilmente.
Per quanto riguarda il genere, ti inseriscono e l’indie in Italia è quasi un genere, mentre nel mondo vuol “Indipendente”.
È molto vasta la cosa: se mi definisci “indie” come genere ti dico no, perché a differenza della stragrande maggioranza degli artisti “indie” mi piace dire qualcosa nei testi.
In quella roba io non vedo qualcosa in me: sono luoghi comuni, come la polaroid o la birra da 2 euro.
Stai pensando a qualcuno in particolare?
No, però, se tu fai un calcolo delle parole usate in questi brani, il 70% del vocabolario è comune. Potrei farti un brano indie su questa roba, sul tavolo, tipo “C’è la tua agenda ma non c’è il mio nome, e gli occhiali di qualcun altro”.
Ecco, è un brano indie.
L’industria musicale si è limitata nel ricercare: vedono che va qualcosa, ma non coltivano niente di bello, creano un prodotto e poi lo buttano e non lo condivido.
Io non sono indie, non rientro in quel canone.
Il mio è un suono in testa e faccio cantautorato su una musica che, oggi, penso sia quasi ovvia e consecutiva: c’è il gusto di ritornare alle chitarre, sperimentiamo, inventiamo dei suoni e andiamo avanti.
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