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Pochi personaggi nella storia sono riconosciuti con il loro nome di battesimo. Dante, Napoleone… Elvis. Dalle polverose strade delle baraccopoli di Tupelo, Mississipi, fino agli sgargianti palcoscenici di Las Vegas, Elvis Presley ha creato una figura mitologica, quasi un archetipo della musica americana. Il regista Baz Luhrmann ha preso in carico un compito difficilissimo: restituire in un biopic l’anima, le movenze e l’impatto culturale del Re.
A vestire gli sgargianti panni di Elvis è stato chiamato il giovane Austin Butler, accanto a un gigante come Tom Hanks nel ruolo del controverso Colonnello Parker, fautore e rovina della carriera del grande artista. È affidata proprio a quest’ultimo la narrazione della vita del Re, in un continuo rimpallo tra la realtà e la versione dell’avido agente e imbonitore.
Elvis dietro i lustrini
Tra paillettes e ancheggiamenti, le due ore e mezza di film corrono veloci come le dita di Elvis sui tasti della chitarra. La regia di Luhrmann non si smentisce, con sequenze oniriche e un montaggio serrato, con momenti che ricordano da vicino l’ambientazione folle dal sapore circense di Moulin Rouge!.
La vita di del giovane Elvis Presley è segnata dalla musica, vera folgorazione avvenuta nel quartiere dei neri in cui viveva con la famiglia. Lì ascolta i brani di Arthur Crudup e la musica suonata in chiesa durante le funzioni, che entrano nell’anima di quel gracile bambino bianco di Tupelo, per non lasciarla mai più. Più avanti la famiglia si trasferisce a Memphis, dove Elvis assimila ancora di più la tradizione musicale black, frequentando assiduamente Beale Street, vero centro nevralgico del blues e dell’R&B, dove incontra giganti del calibro di B. B. King, “Big Mama” Thorton e un giovanissimo Little Richard.
I vestiti larghi e colorati, le movenze sensuali e la voce calda piena di sfumature lo fanno subito notare dall’industria discografica e da un imbonitore noto come Colonnello Parker, che avvicina il ragazzo per diventarne agente e impresario, ruolo che non abbandonerà fino alla morte di Elvis. L’occasione è troppo ghiotta: promuovere un bianco che canta la musica dei neri, tanto amata dal pubblico quanto osteggiata dalle radio e dalla televisione degli anni Cinquanta.
L’energia del ragazzo che “sembra avere la forza di due uomini“, non tarda a farsi notare e a creare scandalo tra i benpensanti, intenzionati a fermare le esibizioni degenerate di Elvis e la diffusione della sua musica, così sincopata e selvaggia. Luhrmann pone l’accento su queste vicende per dipingere l’immagine di un giovane a modo, devotissimo a sua madre Gladys, che appena salito sul palco si anima del sacro fuoco della musica, donandosi con tutto il cuore al suo pubblico, fino all’ultimo respiro.
La parabola di Elvis non segue il classico schema del biopic musicale, ascesa-crollo-redenzione, ma disegna la girandola pacchiana di una vita che si è spenta lentamente, consumata dalla sete di denaro del suo entourage, dall’abuso di farmaci e da una vera e propria carcerazione dorata sui palchi di lussuosi alberghi e casinò. La fine del Re viene raccontata con rispetto e onestà, mostrando l’immensa fragilità dell’uomo e la condanna del divo, assoggettato da quella voce fuori campo che diventa sempre più velenosa con il trascorrere delle immagini sullo schermo.
Elvis risplende grazie al grande cast e alla regia brillante
Tutti conoscono Elvis Presley, tutti conoscono le sue canzoni e tutti hanno marchiata a fuoco nella mente la sua immagine, con i capelli neri imbrillantinati, i completi sgargianti e le movenze ammiccanti. Il film di Baz Luhrmann fa scendere dall’Olimpo una vera icona del XX secolo per mostrarcela come fragile, costantemente alla ricerca di approvazione e desiderosa d’amore, mostrando Elvis sotto una luce nuova, inedita.
Il merito va anche alla grandiosa interpretazione di Austin Butler, per la prima volta alle prese con un ruolo da protagonista. Il giovane attore ha studiato alla perfezione il personaggio, dal tono strascicato della voce ai movimenti, fino alle impressionanti doti vocali e allo sguardo dolce, nascosto da quegli occhi perennemente socchiusi.
Il suo Elvis è pieno di vita e di paure, posto sotto la mastodontica ombra del Colonnello Parker, vero contraltare della storia. Quest’ultimo ha il volto di Tom Hanks, che da sorridente bonaccione si trasforma nella maschera dell’avidità, con gli occhietti infossati fissi sulla sua gallina dalle uova d’oro. I due attori si esaltano a vicenda senza mai coprirsi, inseriti nel gioco di dipendenza reciproca che fu di Elvis e del suo insaziabile agente.
Non solo Elvis in una colonna sonora che parla di prima e dopo
Un film su Elvis non può che avere come elemento cardine la musica. I brani del Re, cantati magistralmente da Butler, non sono l’unico elemento della colonna sonora, sempre molto curata nelle pellicole dirette da Baz Luhrmann.
Tra brani immortali di B. B. King, “Big Mama” Thornton, Little Richard e Rosetta Tharpe, spiccano due inediti dal sapore molto più contemporaneo: The King & I di Eminem e la cover del brano If I can dream, realizzata dai Maneskin. Altri brani che omaggiano l’eredità di Elvis nella produzione musicale dei nostri tempi sono Vegas, di Doja Cat e Tupelo Shuffle di Swae Lee e Diplo.