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Davide Ferrario: “Dove voglio arrivare? Nel 2040 vorrei essere come Hans Zimmer”

Davide Ferrario intervista
Foto di Sergione Infuso

Tra i concerti di questo mese, sul palco del Fabrique saliranno gli Infected Mushroom sabato 16 febbraio, unica data italiana.

Ad aprire il concerto ci sarà il live set di Davide Ferrario, producer e musicista per i grandi della musica italiana come Franco Battiato, Max Pezzali, Syria, Fred De Palma, per esempio.

Nella prossima primavera, sarà pubblicato il suo primo ep per un’etichetta di San Francisco, inoltre suo ultimo mix “Santa House Is Coming To Town” ha raggiunto la 57^ posizione della classifica internazionale di mixcloud. Il chitarrista salirà sul palco alle ore 23, con biglietti disponibili online.

La nostra intervista a Davide Ferrario

“Questi anni mi hanno portato a lavorare con tante persone interessanti, mettendomi sempre alla prova. Sono nato come musicista, perciò non voglio tralasciare questo aspetto anche se mi sono avvicinato al mondo della dance e dell’elettronica, ma voglio convogliare tutte le mie esperienze in un nuovo progetto musicale che mi rappresenti”

Cosa dobbiamo aspettarci da questo live Milanese? Il fatto che farai da opening act, influenza la scelta dei pezzi?

No, non mi influenza, perché è un live strutturato.

Oggi è molto difficile parlare di live nell’ambito della musica elettronica: non faccio finta di suonare e la mia presenza è indispensabile.

Questa concezione è data dal fatto che parto da musicista e non da dj.

Non userò il computer perché è terribilmente alienate e uccide qualsiasi rapporto con il pubblico, che è fondamentale.

Ci saranno delle “macchine”, anche se avrei volto portarmi dietro le mie tastiere, ma è comunque qualcosa di suonato.

Questo comporta dei rischi anche perché sono solo, non con una band dove l’errore si “tampona” in qualche modo.

Ti fa paura?

Ho moltissima paura anche perché sarà la prima volta che lo porto fuori e in un posto grande come il Fabrique e prima degli Infected Mushroom.

Mi racconti della tua collaborazione con Franco Battiato?

L’esperienza con Battiato è stata sicuramente la più importante ed è stata la prima collaborazione.

In qualche modo lui è il responsabile del fatto che mi guadagno da vivere facendo il musicista.

Una lunga collaborazione ed è stato molto “formativa” perché lui è una persona splendida in cui ho subito trovato un livello di comunicazione positivo e costruttivo.

Ero un giovane chitarrista e sono contento che sia iniziato con lui perché te la fa “vivere bene”: non ti addossa dei pesi e delle responsabilità eccessive e nello stesso tempo valorizza i tuoi aspetti stilistici.

Durante i concerti ti lascia margini per esprimerti musicalmente e dal punto di vista chitarristico mi sono trovato ad avere degli spazi che in altre situazioni non ho avuto.

Dipende molto dall’artista e lui non si è “imposto”.

Cosa ti ha spinto a passare da turnista a provare un percorso dove sei tu l’artista esposto in prima persona?

In realtà, ho sempre fatto il cantautore e come tutti quelli che fanno questo mestiere nasce da un’esigenza di espressione personale.

Ma non vuol dire che smetta di fare il turnista, per esempio ora sto collaborando con Max Pezzali.

È una cosa in più nata da un’esigenza di voler fare: ad un certo punto, senza pensare a quello che sarebbe stato, a quello che stavo mettendo giù.

Ho deciso di iniziare perché avevo voglia di farlo e per vedere se quello che veniva fuori potesse avere un senso.

Non è partito con l’idea di disco, di live, ma semplicemente di mettere nero su bianco, di sigillare un periodo storico che in qualche modo termina e per ricominciare qualcosa di nuovo.

Una voglia di rinnovarsi? E come si traduce musicalmente?

La voglia di rinnovarsi c’è sempre. Musicalmente, per uno che ha sempre fatto musica pop trovarsi a fare della deep house è già auto esplicativo.

È un altro modo di ascoltare e comporre: c’è un grande senso di libertà e non sei più confinato dentro ai concetti di strofe, ritornelli e la forma della canzone canonica.

Questa è una grande vittoria: il fatto di potermi mettere davanti al computer, con le mie tastiere e sapere che posso creare quello che voglio.

È da un po’ di anni che non vivevo questa sensazione di libertà.

Un inizio da cantautore, un Festival di Sanremo nel 2007 fino alla Deep House. Mi racconti queste fasi musicali?

Ho iniziato a scrivere dei miei pezzi verso i 12 anni e sono stato sempre un grande “smanettone”.

Mio padre era un ingegnere elettronico e anche un po’ musicista, quindi avevo sempre la casa piena di computer, tastiere, chitarre; il motivo per cui sono un polistrumentista autodidatta.

Al Liceo ho messo su la mia prima band, con cui suonavo un po’ di cover e pezzi originali, ed è stata più o meno la stessa con cui abbiamo partecipato a Sanremo.

E poi sono partite le varie collaborazioni con gli artisti e mi sono reso conto che l’ambito del pop non mi apparteneva: dovevo fare altro e qualcosa di mio, altrimenti avrei continuato a fare solo il turnista e producer.

Sei un chitarrista, come è iniziato a suonare?

La chitarra è il mio strumento, ne sono un appassionato. Ho iniziato con i Beatles, poi mi sono innamorato di David Gilmour e la scena britpop anni 90 in generale.

Li ho preferiti alla musica metal e a gruppi come i Led Zeppelin o Jimi Hendrix.

Ero affascinato da tutto quello che era il pop intelligente.

Cosa intendi per Pop Intelligente?

Mi interessa quando si rende lo strumento funzionale al brano. Credo che ci sia un momento in cui ti accorgi, a seconda di quello che stai ascoltando, che quel brano, quel pezzo, sia nato da una ricerca e non da un’esigenza di scrivere “qualcosa per”.

Mi piace quando mi accorgo che quello che sto sentendo non è convenzionale e penso che qualcuno dica “ok è bello, ma cerchiamo di andare oltre e inventare qualcosa di nuovo”. È una questione vincolata anche al contesto storico.

Un esempio sono appunto i Beatles.

Mi interessa un percorso evolutivo.

Sai già come o in cosa si svilupperà il tuo percorso artistico?

Non ne ho la più pallida idea, per fortuna: magari a niente, forse il prossimo anno smetto.

Dipende da come mi sento e se sapessi dove voglia andare o dove voglia arrivare, lo farei già.

C’è un brano che ti piacerebbe rivisitare e inserire nel futuro album?

Sì, mi viene in mente Éric Satie perché questo progetto nasce ed è incatenato allo strumento del pianoforte.

In questo momento il suono del pianoforte mi piace tanto, oltre al fatto estetico che questo strumento è molto cinematografico.

Ah, ecco, mi hai chiesto dove volessi arrivare? A fare musica per film.

Vorrei essere un “Hans Zimmer” del 2040: quando sarò vecchio vorrei avere un enorme studio con un’orchestra a circolo.

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