Abbiamo intervistato il cantautore toscano Andrea Biagioni, in uscita con il singolo “Violet peonie”, che anticipa il nuovo album previsto per il prossimo aprile.
La nostra intervista ad Andrea Biagioni
Alla realizzazione di questo album, hanno collaborato altri artisti? Anche solo per quanto riguarda la scrittura oppure ci sono anche proprio dei duetti quindi ti confronti proprio con altre voci?
Sì, ci sono state delle collaborazioni a livello di scrittura perché non ho cominciato da tantissimo a scrivere testi.
Avevo tante idee da mettere su carta e alcuni brani sono stati scritti quasi completamente da un mio collaboratore cantautore, David Ragghianti.
Abbiamo cominciato a scrivere e ci sono stati dei brani molto belli che lui ha voluto condividere con me in questo album: sono stati reinterpretati e ri arrangiati, riaggiustati, un po’ come fa un sarto con una giacca su misura.
Un’altra collaborazione è quella con Giuliano Dottori per la produzione dei brani e di strumenti suonati, dove ha contribuito personalmente.
La maggior parte dei brani sono stati suonati nella mia casa a Lucca: la batteria in salotto, io da solo in mansarda, chitarra e voce, proprio per non far entrare i suoni.
Un po’ così, nomadi, fra un piano e l’altro e un po’ si sente questa cosa nel brano, in positivo e in negativo: è logico che non mi possa permettere ad oggi studi o produzioni mega galattiche, ma ho avuto la fortuna di poter suonare all’atto pratico in diretta con la band la maggior parte dei brani nella mia casa.
Quindi è stata una scelta, o quasi.
Diciamo di sì, alcuni brani sono stati registrati lo scorso annoi, alla fine è un anno e mezzo che lavoro su questo disco.
È stato anche un pro, una cosa positiva, perché alla fine registrando a casa tua hai la tranquillità è dove scrivi, dove vivi, dove studi, dove la tua dimensione, quindi sicuramente nei brani c’è gran parte del mio mondo anche a livello sonoro.
È stata una cosa che si è rivelata positiva.
Tra le varie esperienze, c’è stato anche la scorsa edizione (2018) di Sanremo. Dopo quell’esperienza, hai sentito la necessità di rivedere e/o cambiare alcuni brani di questo disco?
No, in realtà no e anzi, mi ha fortificato ancora di più nei confronti delle scelte che sono anche un po’ rischiose al giorno d’oggi come presentare “Alba piena” stessa, che si trova come un pesce fuor d’acqua nel panorama musicale di oggi.
Mi ha fortificato perché mi ha fatto capire che si può fare se le cose le fai bene e se ci metti dentro tutto te stesso le persone se ne accorgono, non tutti, ma tanti se ne accorgono per fortuna.
Qualcosa di vero, sincera, elegante e fatta con criterio ti apre le porte a sentirti più libero di creare e a proporre cose come potevano essere i dischi di Grignani nel ’95 e non un disco di oggi di qualunque mainstream del 2019.
Dopo l’esperienza sanremese sono stati scritti altri due brani.
Sono diversi da quelli scritti precedentemente?
Sicuramente hanno qualcosa in più anche perché ogni esperienza ti regala cose belle, cose brutte e quindi ti intacca un po’, ti influenza.
Anche quando studi e stai dietro a un lavoro di scrittura, scrivi per sei mesi e non ti viene fuori nulla di buono, poi magari ti viene due mesi dopo perché hai smesso di fare una cosa e nel frattempo ne hai fatto un’altra.
Il lavoro che hai fatto prima ha decantato le informazioni dentro di te e vengono fuori quando meno te lo aspetti.
L’esperienza di Sanremo magari viene fuori tra tre mesi, ogni cosa ha i suoi tempi.
Però è una cosa che mi ha fortificato molto, come mi ha fortificato X-Factor.
Hai studiato molto, sei uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dire “studio prima di presentarmi alla musica” però tu hai rinunciato ad un college molto importante di Boston per andare a X-Factor. È vero?
In realtà ho rinunciato a quel college perché quell’anno non c’erano più corsi disponibili per il mio strumenti ed erano 60mila euro l’anno.
X-Factor è stata una scelta dura farla: mi sono reso conto che avevo paura ad andare in televisione dopo anni di studio della musica, dal canto alla chitarra.
Mi sono ritrovato a dire “Ok! Questo sono io!” davanti a 15milioni di ascoltatori.
Ti faceva paura il giudizio?
Tutto un insieme di cose, soprattutto il dichiararmi “Questo sono io oggi” che voleva dire tutto il tempo che ho passato sulla musica.
Ecco sono arrivato qua e questo era per me duro da accettare, perché i miei riferimenti sono molto grandi, tipo Stevie Wonder, i grandi pilastri della musica, è logico che inconsciamente fai sempre un po’ un paragone per prendere le misure e continuare a lavorare su delle cose che prendi da un’artista o da un altro per crescere.
Quello del talent è un marchio importante che ti porti dietro e da musicista era una scelta complicata che poi si è rivelata positiva perché alla fine sono riuscito con la mia testa dura e con le persone che per fortuna hanno accolto le mie scelte a non farmi snaturare.
Perché sei stato con Manuel Agnelli
Esatto! Infatti, sono stato molto fortunato e lo dico sempre che con me hanno fatto proprio un gioco di squadra.
perché’ hai deciso di intraprendere una strada diversa dal musical, dopo anni di esperienza? È stata una scelta dettata dalla volontà o dalla necessità?
Sono dell’idea che si deve poter provare tutto prima di scegliere, prima di essere in grado di capire quello che ci piace di più.
È come quando mangi una cosa nuova, finché non la provi non lo sai! Tu hai i tuoi gusti, io i miei. E io ho sempre voluto provare, per quello che suono tanti strumenti, ascolto tante tipologie di suoni e modi di suonare perché sono curioso.
Sono sempre stato un personaggio che veniva sempre fuori per una questione emotiva, di quanto ti metti in gioco quando suoni, quando sei nato “artistico”.
Mi son sempre vergognato di essere il leader della band perché alla fine quando suoni, se veramente fai arte, sei nudo e non è che tutti stanno a proprio agio nudi davanti a 50/60mila persone.
Anche quello è stato un lavoro impegnativo e col tempo mi sono reso conto che quella era la mia strada e ho capito di aver bisogno di fare le cose tanto come le immagino, come le dico io, come le sento, come le vivo per usarmi al meglio in quella cosa.
Penso di essere molto “smart” nell’usare me stesso e se a qualcuno piace a quel punto penso di essere in grado di gestirmi, conosco i punti di forza e i punti deboli e per adesso ha funzionato abbastanza bene.
E alla fine è anche bello perché se ti va bene ti sei messo a rischio davanti a tutti e quando ti arriva un applauso te lo godi, no?!
C’è qualcosa di cui vorresti riscattarti in questo momento?
Qualcosa in cui non mi son sentito troppo a mio agio e vorrei far qualcosa per recuperare? Ti faccio un esempio: il singolo presentato a X-Factor era un brano molto bello che lo porto sempre in tour, chitarra e voce, però purtroppo non ci sono stati tempi fisici né tecnici.
Una fretta incredibile nel produrlo, in 5 ore, un mezzo pomeriggio per produrre un brano che doveva uscire la settimana dopo, nel caos totale dei due mesi e mezzo, cantato la sera dalle 2 di notte alle 4 di notte dopo una giornata delle prove.
Era un mercoledì, quindi con l’ansia del giorno dopo della performance, un caos totale dalle 9 della mattina in studio e tutto il giorno prove con Tommasini fino all’una di notte in taxi per raggiungere lo studio di registrazione.
Leggevo il testo perché non lo sapevo ancora.
Questo è stato il mare dentro e quando sentivo il pezzo alla radio magari, mentre facevo colazione, mi veniva da spiegare tanto, come ora a te, come è andata quella cosa, perché non ti ci senti realmente, non basta quello che c’è nel brano per sentirti a tuo agio.
Con questo disco potrò dire “Ok! Più di quello non potevo fare” ed essere felice.
Il brano che hai portato a Sanremo parla dell’importanza della comunicazione. Come comunichi con il pubblico?
Il pubblico pretende, inconsciamente, che tu li porti nel tuo viaggio ogni sera, ma magari non hai le forze di “caricarti” 20, 30, mille, tremila persone e quindi usi mezzi differenti: suoni di più, o parli di più tra un pezzo e l’altro.
Poi, magari, c’è quella sera che ti fermi due ore dopo con i fan o con chi ha voglia di parlare con te, scambiare due parole in più.
Cerco di essere il più libero possibile nell’interpretare i brani, nel suonare, nel cantare, questo mi dà modo di frenare il meno possibile le emozioni che mi si creano dentro quando poi faccio la performance quindi l’atto di comunicazione più importante per me è proprio la performance.
Inoltre, non sono un amante delle parole nella musica ma un amante dei suoni, quindi per me potrei fare un disco totalmente strumentale e le parole sono una cosa in più per me.
Sono un grande hater dei social, nonostante si un mezzo gratuito, anche se non più dato che hanno trovato il modo di farti spendere milionate per poter promuoverti.
Non è un mezzo che io adoro perché per me è un gran filtro rispetto al parlare direttamente con una persona, incontrare persone, suonare dal vivo davanti a tanti.
Hai usato tantissimo il termine colore quando mi hai parlato di musica. Il tuo album che colori ha?
Ne ha tanti! Sicuramente ci sarà un rosso un po’ scuro perché è il mio colore preferito, ci saranno gli arancioni, i gialli, il blu, i verdi.
Quindi molto caldo come album
Sì, sicuramente, perché per me i suoni hanno un colore: per esempio il SOL lo vedo rosso o arancione-rosso. Il Fa lo vedo verde, il Do lo vedo quasi bianco, azzurro chiaro cioè vedo proprio i colori nei suoni.
E ogni suono in relazione ad un accordo per me ha un’armonia: come quando impasti i colori su una tavolozza.
Quando sento una canzone vedo proprio anche il disegno, vedo i colori.
Prima o poi mi arresteranno per questo, forse però, insomma. Sì!
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