Martedì 22 novembre, in prossimità della Giornata contro la Violenza sulle donne (25/11), su Rai Uno, andrà in onda in prima assoluta Io ci sono, il film tv diretto da Luciano Manuzzi e ispirato alla storia di Lucia Annibali. Chi di noi non ricorda il servizio del tg che annunciava l’evento di cronaca? L’uomo con cui aveva avuto una relazione, l’aveva attesa per gettarle dell’acido in volto. A interpretare la donna è stata chiamata Cristiana Capotondi, mentre Alessandro Averone darà corpo a Luca Varani.
Da poco l’attore è stato in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano con Otello. Non ghettizza mai il mezzo con cui si esprime se crede in un progetto, ma in parallelo ai lavori tra piccolo e grande schermo, ci tiene fortemente a esserci sulle tavole del palcoscenico. L’abbiamo intervistato per approfondire il suo percorso artistico, partendo dagli ultimi lavori per poi ampliare lo sguardo alla situazione artistica-culturale nostrana.
Il tuo personaggio viene identificato come colui che ha fatto del male a Lucia Annibali e questo è un dato di fatto. Come si fa, recititativamente parlando, a non entrare nel meccanismo semplicistico vittima-carnefice?
“In questo caso, così come accade per un cattivo shakespeariano, il personaggio non va mai giudicato nel momento in cui lo devi interpretare. Poi siamo anche delle persone, fuori da quello, ognuno ha i propri metri di giudizio. Quando devi calarti nel ruolo vanno cercate le motivazioni o i percorsi mentali anche all’interno di una malattia, per chi ce l’ha, o di una nevrosi, si ricerca il perché arriva a compiere quel preciso atto cercando di restituire, il più onestamente possibile, quella che è la via scelta”.
Il sottotitolo di questo film tv è “La mia storia di non amore”. Cos’è il non amore per te?
“Ha a che fare con il rispetto tra le persone, spesso le passioni grosse prendono delle devianze che travalicano dei limiti, che sono quelli del rispetto e dell’amore vero nei confronti dell’essere umano”.
Che cos’ha significato realizzare questo progetto?
“È stato molto interessante farlo sia perché era una storia vera, poi respirare lì dove è successo e il modo in cui è stata trattata questa storia mi ha sorpreso molto. Ho notato un enorme rispetto e al contempo una grossa liberà creativa. Quando si vanno ad affrontare delle storie drammatiche ci vogliono sempre una grande sensibilità e intelligenza da parte di tutte le persone che collaborano, sia delle persone vittime reali, sia di chi sta realizzando il film tv. Un’esperienza di vita che va al di là di quella meramente lavorativa”.
Il film tv va in onda sulla Rai che corrisponde al servizio pubblico. Secondo te davvero questi strumenti provocano una risposta attiva in chi guarda, pensando sia al femminicidio, ma allargando anche ad altri temi?
“Il tentativo è quello. Bisogna sempre provare a smuovere le coscienze, con qualsiasi mezzo”.
Spesso si parla dello stato della drammaturgia contemporanea italiana. Sei stato in scena con ‘Natura morta con attori’ (regia di Alessandro Machìa) all’ultima edizione di “Tramedautore”, in cartellone a Lugano e in Puglia a marzo 2017. In questo testo di Fabrizio Sinisi si parlava anche di verità e a tal proposito, ricollegandomi a una battuta, volevo domandarti: pensi possa essere davvero possibile l’assoluta verità nei rapporti umani?
“Potremmo dire che la verità sta nel provarci a essere sinceri, è un primo scoglio con se stessi. Forse con gli altri aiuta maggiormente perché probabilmente le altre persone sono un po’ meno tolleranti di noi stessi verso le nostre menzogne. Non posso rispondere con certezza, posso ipotizzare…”
Nello stesso spettacolo c’è un’ipotesi infatti…
“Sì, c’è un attendere un tempo che comunque verrà ed è quasi fideistico in quest’ottica, c’è un mistero. Vi è una religiosità laica nei confronti del nostro vivere nel mondo”.
Un altro aspetto che emerge da ‘Natura morta con attori’ è connesso alla tendenza a creare dei simulacri nella nostra società, sia nella quotidianità che nell’ambito della comunicazione. Da artista qual è il tuo polso a riguardo?
“La vivo cercando di romperlo nel momento stesso in cui è servito. Per forza devi formalizzarti in qualcosa, però lo si fa con la coscienza che ha una verità per quel momento lì, il secondo dopo va di nuovo rotta l’immagine per crearne un’altra. È un po’ un gioco al massacro, certamente stancante”.
Nella pièce c’era una provocazione legata al “killer del poeta”. Qual è la tua idea sul linguaggio teatrale attuale?
“Io credo che vadano abitati diversi generi e ben venga che ci siano varie forme teatrali tra cui questa, in cui c’è un linguaggio alto, molto simile a quello di Pasolini. Spesso c’è chi afferma che il teatro di Pasolini sia irrappresentabile perché non c’è azione, in realtà essa esiste se riesci a restituire un corpo alle parole. Siamo un po’ troppo influenzati dal ‘verismo’, subito commenterebbero: non è possibile che due persone parlino così. A teatro si sa che è una convenzione, c’è un gioco di finzione di cui il pubblico è consapevole e sa che ciò che gli viene presentato è una proposta. Sono felice anche da attore di attraversare vari generi e linguaggi”.
Qual è il linguaggio in cui ti senti più adeguato?
“Non saprei ancora dirlo. Mi piace sorprendermi quando riesco ad acquistare un’organicità con quello che sto facendo, facendo passare concetti ed emozioni a chi guarda”.
Recentemente, in merito alle nuove leggi, hai affermato: “Le Istituzioni non fanno molto per la cultura in Italia, ma soprattutto potrebbero fare meglio. Nel senso che anche le nuove leggi che sono entrate in vigore l’anno scorso hanno in parte rivoluzionato il finanziamento e le regole però non hanno tenuto conto di alcuni aspetti che sono molto importanti privilegiando la quantità alla qualità”. Come mai?
“Ritengo ci sia una tendenza a burocratizzare il sistema e a far in modo che chi debba prendersi la responsabilità di fare delle scelte possa delegare a un qualcosa di non umano, ma di numeri. Quindi, tra virgolette, è più semplice perché si innesca il meccanismo: se non hai quei numeri no, altrimenti sì. Porsi il problema sulla qualità di ciò che stai guardando è uno sforzo maggiore, oltre che un onere. Io credo che se uno va a rivestire una carica politica o amministrativa debba assumersi certi impegni”.
Da artista, cosa vorresti pensando alla formazione delle nuove generazioni?
“Penso che avere un luogo dove dare continuità a un gruppo di lavoro sia importante. L’interesse per il teatro e per la cultura in generale non arriva da un giorno all’altro, hai bisogno di tempo per lavorare sulle e con le persone quindi essere stanziali o avere un percorso riconoscibile, dove la gente sa cosa fai e cosa aspettarsi è fondamentale per continuare lo scambio. Non è senza speranza la situazione. Nonostante le tecnologie, il teatro continua a rimanere molto particolare come arte, perché è quella che continua a rimanere lì, viva davanti a te e accade”.
In questa prospettiva penso che con il Silvano Toti Globe Theatre fate un lavoro fantastico in tal senso, partecipano anche moltissimi giovani come spettatori…
“Sì tantissimi, se si tiene conto che vengono messi in scena testi classici. Proietti e il suo staff fanno un ottimo lavoro e ormai la gente sa cosa accade lì, in parte è una garanzia”.
Nel tuo percorso formativo e professionale hai avuto modo di lavorare in diverse occasioni con un maestro come Peter Stein. Si può dire che si è creato quasi un rapporto da attore feticcio e non siete in molti, ad aver avuto questa possibilità con i maestri del nostro tempo. Come la vivi?
“Per me è stata una fortuna incontrare questo grandissimo maestro, come ce ne sono pochi oggi: credo che la nostra ottima corrispondenza vada messa in gioco il più possibile, perciò sono sempre super felice di lavorare con lui, perché rappresenta sempre una crescita sul piano attoriale e pedagogico. Mi diverto e allo stesso tempo imparo”.
In cosa ti ha cambiato?
“Sicuramente nel modo di leggere il testo, cogliendo i vari livelli di lettura dei personaggi. Stein è un grandissimo conoscitore delle relazioni umane, a vari strati. Una cosa che amo tantissimo è il profondissimo rispetto che ha per l’autore e il testo, tutto parte da lì. Lui cerca di mettere a disposizione la sua conoscenza dei meccanismi teatrali e la sua lettura dei testi per restituire quello che l’autore intendeva”.
C’è ancora una corda di te che vorresti far emergere?
“Chi lo sa (sorride con l’atteggiamento di chi, in primis, vuole sondare ancora corde di sé non emerse, nda), alcune corde non so neanche dove sono“.
Anche per questa ragione ti sei cimentato come regista?
“Sì perché credo che passare dall’altra parte permetta di creare uno scambio con l’essere attore abbastanza interessante, si auto-alimentano”.
Hai sottolineato l’importanza dei maestri e parlavamo delle nuove generazioni, c’è chi dice che il teatro di parola e di regia sono morti, tu come ti poni?
“Forse è vero che in parte sta morendo, ma nel senso che ci sono meno punti di riferimento, però ci sono dei registi giovani che magari lo diventeranno. Penso a nomi come Latella o Binasco, ognuno nella propria diversità. A naso credo che siamo in un momento in cui gruppi di attori si mettono insieme, avendo voglia di trovare un linguaggio comune, in mancanza di padri. Io ritengo che il teatro non può morire, c’è magari un sentirsi un po’ orfani”.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Riprendiamo a Roma Aspettando Godot (di cui cura la regia, nda) augurandoci di riuscire a portarlo anche in tournée toccando anche Milano e poi preparerò il Riccardo II per la regia di Stein.