Quando La ragazza senza nome (t.o. “La fille inconnue”) prende il via si avverte già di essere davanti a un film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, il lungometraggio è stato appena distribuito nelle nostre sale da BIM in una versione diversa da quella presentata nella kermesse francese. Dei cineasti così esperti e di lungo corso, hanno deciso di cogliere e accogliere i suggerimenti che provenivano dalla critica e dai commenti dopo la visione a Cannes, si sono messi in discussione e hanno deciso di tornare al montaggio tagliando in totale sette minuti.
Il titolo potrebbe suggerire un collegamento al cinema di genere, ma non è questo che intendono fare i Dardenne. Jenny Davin (una straordinaria Adele Haenel, che vi consigliamo di non perdervi in Les Ogres diretto da Léa Fehner e prossimamente in uscita) è un giovane medico che sta sostituendo il titolare in un ambulatorio alla periferia di Liegi (luogo diventato cult per questi registi e location imprescindibile dai tempi de La promesse, 1996.
La affianca Julien (Olivier Bonnaud), uno stagista, insicuro, competente e (apparentemente) meno rigido. Quando una sera, dopo la chiusura citofonano alla porta, Jenny consiglia al ragazzo di non aprire. Questo gesto sconvolgerà le vite di tutti, a partire da quella della giovane sconosciuta che aveva suonato. Qui parte un percorso che da un lato dà il via alle indagini, dall’altro è un affondare l’obiettivo della macchina da presa nel senso di colpa. La dottoressa si sente in colpa per non aver aperto né fatto aprire la porta dello studio medico.
La protagonista riempie lo schermo con tutta la potenza emotiva e drammaturgia che porta con sé. Com’è nella loro poetica, i fratelli Dardenne mettono in atto anche ne La ragazza senza nome il pedinamento non solo sulla giovane dottoressa, ma anche attraverso di lei, alla ricerca della verità e verrebbe quasi da dire, parallelamente, dell’identità. Jenny vuole riuscire a ridare identità alla giovane donna ritrovata morta (non a caso straniera e clandestina), al contempo, però, lo spettatore non è molto a conoscenza di ciò che è il suo passato o anche il privato.
S’intuisce il carattere della dottoressa dai gesti e dalle azioni che compie, ma nulla di più, il fulcro sembra essere il suo essere medico e in quanto tale ricerca. Ci si trova di fronte a una donna che si dà generosamente attraverso la sua professione (torna in mente la parrucchiera de Il ragazzo con la bicicletta) seppur con un’empatia tutta particolare ed è per via di questa ricchezza “anomala” (colpisce la scelta lavorativa che compirà e che non vi sveliamo) che sembra incidere, passo dopo passo, nel quotidiano, in quell’humus umano che abita la periferia.
Voto: 7
Una frase: Non farsi sopraffare dalle emozioni non vuol dire essere disumani