Il 29 giugno sarà in concerto a Milano, sullo stesso palco, quello del Market Sound (Mercati Generali) dove si esibiranno anche Neil Young e gli Afterhours. Ma oggi, per Vinicio Capossela, è il giorno dell’esordio discografico del doppio album Canzoni della Cupa, un’opera complessa, iniziata ben 13 anni fa con le prime registrazioni quasi clandestine a Cabras, nel golfo di Oristano, che affonda nella tradizione più autentica dell’Italia rurale e che del nuovo tour, anch’esso duplice, estivo e invernale, con titoli, programmi e location diverse, è la matrice.
Per presentarlo, il poliedrico cantautore, poeta, scrittore nato ad Hannover da immigrati italiani di origine irpina, che ha scelto molti anni fa Milano come la zona franca dove vivere e lavorare (“una città che ti allontana da tutti senza portarti da nessuna parte”), ha dato appuntamento agli addetti ai lavori* all’ex Albergo Diurno Venezia di piazzale Oberdan, oggi affidato alle cure del FAI.
“Un luogo di polvere, di ombra, come i due tempi in cui ho diviso, idealmente, il percorso del disco e del tour . Ci passiamo di fianco, di sopra, di lato tutti i giorni ma non lo conosciamo. Un posto quindi sottratto all’uso, a suo tempo popolare (è stato fino agli anni ’80 una sorta di “servizio pubblico”), che se ne sta immobile sotto i nostri piedi affrettati dato che qui, in pieno centro, le lancette del tempo si sono fermate…”, dice Capossela parlando ad occhi chiusi, a lungo rapito dai suoi stessi pensieri, prima di sprofondare nella vecchia poltrona da barbiere che troneggia all’ingresso dei “bagni di lusso” e rispondere alle nostre domande.
Come nasce e perché questo lavoro di ricerca che emerge ora dopo i lunghi anni in cui l’hai coccolato, protetto?
“Il giacimento di cultura in cui si è radicato il mio lavoro è la civiltà che gli antropologi chiamano della terra. Una civiltà millenaria che portiamo dentro, riconosciamo per segnali, ma che di solito non abbiamo occasione di praticare. Perché è cambiato il contesto. Ma a prestargli attenzione questo patrimonio ci regala un’esperienza unica di meraviglia, di bellezza e anche di inquietudine. Sì, perché il rapporto primigenio con la natura in un mondo così (fintamente) rassicurato dai vari involucri che lo avvolgono, può accendere in noi il desiderio di una conoscenza più intima che spesso ci è preclusa e di cui non avvertiamo, se non lontanamente, il pericolo, la nudità…”.
Quali sono i rischi che corre un artista?
“Avvicinarsi alla musica che viene dalla terra è un’esperienza molto particolare: la stessa cosa ci si può presentare come misteriosa e carica di significati o viceversa disinnescata, resa inoffensiva da una forma di folclorismo che rende tutto come già confezionato. Quando ho iniziato a occuparmene, una quindicina di anni fa, ero attratto soprattutto dalla dimensione internazionale del folk, quello delle ballate di Bob Dylan. Poi ho cercato una chiave di accesso che fosse più vicina alle mie radici e mi sono imbattuto nell’opera di Matteo Salvatore, straordinario cantore di Apricena, nel foggiano, che mi ha svelato un patrimonio di storie di soprusi e ingiustizie legate al mondo arcaico del latifondo meridionale. E un’altra fonte d’ispirazione è stata la tradizione ancora praticata a Calitri, nell’alta Irpinia (sede dello Sponz Fest, la manifestazione ideata e diretta da Vinicio, ndr), della cumversazione: intere serate in cui si uniscono le voci nei sonetti e nella convivialità del mangiare e del bere si rielabora l’intera storia della comunità, attraverso arguzie, serenate a ingiuria, serenate d’amore, canzoni di lavoro, cori militare della grande guerra…”.
Nel doppio album hai trovato posto per 29 brani, incisi a più riprese in uno studio mobile con il contributo di moltissimi musicisti della più varia estrazione: Flaco Jimenez, Calexico, Los Lobos, Giovanna Marini, Enza Pagliara, Antonio Infantino, la Banda della Posta, Francesco Loccisano, Victor Herrero, Los Mariachi Mezcal…
Ma la formazione di base era ed è molto scarna: cimbali, chitarra, fisarmonica, contrabbasso. E naturalmente le voci. Diciamo che sono contento di essermi finalmente liberato di questa creatura portata così a lungo in grembo. Se la lasciavo lì rischiava di riprodursi ancora, chissà… La consapevolezza che l’opera era compiuta mi è arrivata quando ho scritto Il paese dei coppoloni, da cui è nato il film di Stefano Obino. I brani che sono entrati, in parte autorali, sono quanto di più lontano dalla musica usa e getta di oggi. Sono il lavoro su un bene comune e sono scaldati perciò da una passione e da una verità di fondo, che va al di là della mia soggettività. Attengono a un tempo ciclico, che è quello della natura, e sono durevoli: funzionano tutto l’anno, come i vini buoni in una cantina ben approvvigionata…
Nelle Canzoni della Cupa parli di un’Italia antica, che sta scomparendo. Che fascino esercita su di te la Milano di oggi?
“Sembrerà un vezzo ma Milano per me è il quartiere in cui vivo, proprio qui accanto. Fin quando ci sarà il tram numero 1 io continuerò a stare in quell’incrocio… Milano è come le stanze d’albergo, luoghi che non si impongono, che non ci intralciano con la loro personalità, ma anzi ci lasciano liberi di riempirli con le cose che ci portiamo addosso. Qualcuno, un urbanista, ha detto che l’identità spesso si realizza nei luoghi costruiti per negarla: i luoghi di passaggio. Così è Milano”.
Mete imperdibili della nostra città?
“Ma sai, io non frequento granché: vivo nascosto, come raccomandava Epicuro. Ma ne indico due, tra loro molto diverse: il bar Taveggia e il cinema Beldrade…”.
*Un secondo appuntamento, per il largo pubblico, è previsto domenica 8 maggio, alle 17, nella libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte