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Il figlio di Saul: la recensione di Milano Weekend

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il-figlio-di-saulIl figlio di Saul (Saul Fia) è il debutto registico dello sceneggiatore ungherese László Nemes. Questa opera prima, che ha già ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2015 e il premio Golden Globe per il miglior film straniero 2016, è candidata agli Oscar 2016 come miglior film straniero; dovrà competere con El abrazo de la serpienteA WarTheeb e lo splendido Mustang.

Saul Ausländer (l’attore e poeta ungherese Géza Röhrig) è un prigioniero nel campo di concentramento di Auschwitz; fa parte di un Sonderkommando, i gruppi di ebrei costretti dai nazisti a assisterli nello sterminio di altri prigionieri. Mentre lavora in uno dei forni crematori, Saul scopre il cadavere di un ragazzo in cui crede di riconoscere suo figlio. Tenterà allora l’impossibile: salvare le spoglie del figlio dai forni crematori e trovare un rabbino per seppellirlo. Ma per farlo dovrà voltare le spalle ai propri compagni e ai loro piani di fuga.

Nemes si è ispirato al volume pubblicato dal Memoriale della Shoah La voce dei sommersi (Marsilio), pagine clandestine nascoste sotto terra nel campo di concentramento polacco e ritrovate solo molti anni dopo la fine della guerra: una testimonianza straordinaria. I membri dei Sonderkommando dovevano accompagnare i deportati nelle camere a gas, rassicurarli sul fatto che sarebbero stati sottoposti solo a una disinfezione e invitarli a spogliarsi. Quindi rimuovevano i cadaveri, ripulivano la stanza, bruciavano i corpi. Ogni 3-4 mesi, venivano a loro volta eliminati per fare in modo che nessun testimone dello sterminio rimanesse in vita.

Ma Il figlio di Saul è un film sull’olocausto completamente diverso da quello che il cinema ci ha regalato finora. Perché? Perché ci racconta l’orrore in modo inedito. Pur non optando per una soggettiva pura, Nemes ha scelto il punto di vista del protagonista e ci mostra quello che lui vede. Né più né meno. Il regista non ha voluto giocare sul dualismo prigionieri e carnefici, non ha trasformato nessuno in eroe né ha svelato troppo la fabbrica della morte, il cui orrore rimane fuoricampo o indistinto sullo sfondo: è lo stesso Saul che, per difendersi, quasi non fa quasi più caso all’atrocità in cui è immerso.

Per la prima volta, non siamo riusciti a empatizzare immediatamente con il protagonista, ossessionato dalla pietà per un morto in un luogo in cui non c’è neanche pietà per i vivi. La sua ostinazione ci è sembrata folle e insensata fino a che non ha pronunciato la frase: “Siamo già morti”. E allora Saul ci è apparso per quello che è: un uomo a cui l’orrore ha tolto la ragione e la speranza, incapace di pensare alla vita, così immerso nella morte da rimanere con tutte le sue forze attaccato a un cadavere.

Da vedere.

Una frase: “Hai tradito i vivi per un morto”.
Un voto: 7 e mezzo.
Per chi: cerca un punto di vista diverso sull’Olocausto.